Lévi-Strauss, sciamano d'Occidente
È morto alle soglie dei 101 anni il grande antropologo francese che ha messo in discussione la centralità della nostra cultura
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“Con il passare degli anni, ogni giorno di più provo la sensazione di usurpare il tempo che mi resta da vivere e penso che niente giustifichi più il posto che occupo ancora su questa terra”, aveva dichiarato Claude Lévi-Strauss quattro anni fa, quando non ne aveva ancora novantasette. L’ultimo grande maestro del nostro tempo, l’autore di Tristi Tropici, del Pensiero selvaggio, del Crudo e il cotto, ma anche di quel meraviglioso compimento che è Guardare, ascoltare, leggere, il pensatore che ha segnato il Novecento mettendo in questione non solo la centralità della cultura occidentale, ma anche quella dell'uomo nel sistema vivente, forse voleva che, in quel sistema, la sua vita durasse cent’anni, ma non uno di più. Ne avrebbe compiuti centouno tra meno di un mese. E’ morto, forse non casualmente, nella notte dei Morti, l’unico rito precristiano e tribale che si celebri ancora oggi in tutto il mondo.
Avevamo festeggiato il suo centesimo compleanno, il 28 novembre scorso, pubblicando una parte dei dialoghi avuti a Parigi anni prima. In quelle conversazioni lo avevamo interrogato anche sulla morte. La vedeva molto vicina, non se ne preoccupava affatto. Non gli poneva problemi metafisici, considerava troppo metafisico perfino Seneca, con la sua idea che la vita sia una meditatio mortis, una perenne preparazione alla morte. Lévi-Strauss, contemporaneo dell’esistenzialismo, andava più in là. La sua morale ultima, la sua dichiarazione di fede, era: niente è.
L’aveva ripresa da Montaigne, la ritrovava nel buddismo, di cui era stato curioso all’inizio della sua parabola intellettuale. Naturalmente, aggiungeva conversando nella grande casa parigina piena di libri e di antiche maschere tribali, per vivere bisogna fare come se le cose avessero un senso. Ma criticava perfino Sartre, che sosteneva la necessità di dare un senso alle cose. Sartre pensava che un senso alle cose lo si possa dare veramente, mentre Lévi-Strauss credeva che non ci si arrivi mai. Esistono solo due scelte. “O vivere la vita nel modo più soddisfacente possibile, e allora comportarsi come se le cose avessero un senso pur sapendo che in realtà non ne hanno nessuno: restare lucidi, lasciarsi portare, andare all’avventura. O altrimenti ritirarsi dal mondo, suicidarsi oppure condurre un’esistenza da asceta tra le foreste e le montagne”.
In fondo, da giovane, aveva scelto la seconda opzione, quando nel 1935, dopo la laurea in filosofia, presagendo che la carriera accademica non gli sarebbe riuscita facile, era andato a vivere fra le tribù indie dell'Amazzonia e del Mato Grosso. Era stato compagno di studi di Simone de Beauvoir e Merleau-Ponty, ma la sua mente, polimorfa e multidisciplinare fin dall’infanzia, dedita alla pittura e alla musica quanto alla scrittura e alla lettura, era intollerante alle sistematizzazioni. Fu una duplice sconfitta al Collège de France a dargli quella straordinaria libertà di scrittura che fa di Tristi tropici, dedicato al lungo soggiorno tra i Nambikwara, uno dei capolavori filosofici del Novecento.
La mente di Lévi-Strauss era votata al bricolage, analizzato nel Pensiero selvaggio, o al collage, dove oggetti e pensieri non contano per se stessi, ma per le reciproche relazioni. E' lo spirito dello strutturalismo: tutto è linguaggio, dalla poesia al formicaio, alla sonata.
I manuali parlano di lui come del fondatore dell’antropologia strutturale. Eppure, molte volte ha detto di sentirsi sollevato dalla fine della moda strutturalista degli anni 70. La radice dello strutturalismo andava per lui cercata nel Settecento di Chabanon, un musicologo dimenticato che aveva anticipato Saussure. Anzi, aveva aggiunto, “andrei perfino oltre, fino ad affermare che i veri inventori della linguistica strutturale sono stati gli stoici”.
Questa capacità, da vero strutturalista, o da vero sciamano, di stabilire per ogni oggetto di studio relazioni e connessioni istantanee e multiple, gli derivava anche da immense letture. Conosceva la cultura classica quanto quella tribale, sfruttava contemporaneamente, sincronicamente e per così dire sinfonicamente le intuizioni dei filosofi greci e i sapienti castelli di carte dei filosofi tedeschi. Ma non voleva “neppure dare l’impressione che il suo lavoro fosse una filosofia”. La sua intimità con la poesia era così grande da permettergli di percepire, quasi per sinestesia, i suoni come colori, da confrontare le Vocali di Rimbaud coi neri di Manet e questi con la “tastiera sincromatica” di un dimenticato autore del XVIII secolo, padre Castel.
Lévi-Strauss vedeva nero il futuro ma traeva luce dal passato. Era avido di qualsiasi informazione gli venisse da questo sconfinato territorio, ormai così poco frequentato dalla modernità da renderlo quasi più selvaggio delle giungle del Brasile. Ad avvicinarci, a Parigi, era stata la sua curiosità per il mondo bizantino, un’Atlantide sommersa di cui aveva colto l’immensità, e di cui andava interrogando i riti, i miti, i colori.
“Odio i viaggi e gli esploratori”: così aveva scritto all’inizio di Tristi Tropici, citando Madame de Staël. Era naturalmente un paradosso. Un antropologo non può non essere un viaggiatore, viaggia per i continenti, per le culture, per gli argomenti, per le epoche. Ci dimostra quanto sia illusoria la differenza tra la civiltà e ciò che chiamiamo lo stato selvaggio. Ci spiega che anche dietro la più sofisticata delle usanze si nascondono tabù insondabili e paure ancestrali. Si potrebbe dire: che ne sarebbe di tutte le nostre incertezze, senza Lévi-Strauss? Per fortuna, attraverso il suo esempio e i suoi libri, Lévi-Strauss, anche se la scorsa notte dei Morti se ne è andato, varcando l’ultimo confine del suo viaggio, compiendo l’ultimo dei suoi riti di passaggio, resta con noi per sempre.
IL BELLO COME STRUTTURA
In un oggetto che troviamo bello - e il giudizio in materia può variare da persona a persona - c’è qualcosa di particolare, che lo distingue dagli altri, dagli oggetti dell’esperienza ordinaria?Dal mio punto di vista - ma credo di non far altro che seguire infedelmente il pensiero di Kant - gli oggetti ordinari, come il libro o il portapenne sulla mia scrivania, costituiscono un sistema di relazioni. Il quale è dello stesso grado, dello stesso livello, dei sistemi di relazioni di tutti gli altri oggetti che costituiscono l’esperienza ordinaria. In un oggetto che troviamo bello - e ne ho uno proprio tra le mani, ecco, per esempio questo, anche se non è di eccezionale fattura [una piccola dea Kali in ottone, ndr] - c’è qualcosa che lo rende tale per noi. Oltre alle relazioni che ha con gli altri oggetti dell’esperienza in quanto oggetto ordinario, c’è anche tutto un insieme di relazioni interne che lo rendono più «denso», per così dire, degli altri oggetti che gli stanno intorno. [...] È un po’ quello che tempo fa avevo cercato di fare, insieme a Jakobson, per il sonetto di Baudelaire I gatti: mostrare che si trattava di un oggetto più denso, più pesante, dal momento che vi si potevano cogliere molte più relazioni di quelle che possiamo cogliere in un semplice oggetto empirico.
(dal colloquio con Silvia Ronchey e Giuseppe Scaraffia, alla fine del 1997, pubblicato un anno fa nel libro-intervista Cristi di oscure speranze, ed. Nottetempo)