L'aristocrazia bizantina
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In età di doverosi revisionismi (tocca ad ogni epoca nuova riscrivere la storia) ci sarebbe da riparare a una grave omissione. Ci sarebbe da rimettere in una prospettiva plausibile le vicende di un impero lungo un millennio, ci sarebbe da riconsiderare il gioco dei rapporti tra l’Occidente cristiano e uno degli Stati più duraturi e più potenti che la storia ricordi. Ci sarebbe da integrare la storia dell’Occidente con la storia di Bisanzio.
I testi scolastici di storia generale, anche universitari, ricordano Bisanzio solo per episodi isolati: il tentativo vano di contrastare le invasioni barbariche in Occidente, l’impresa felice di contenere le invasioni barbariche in Oriente, di frenare l’espansione araba nel Mediterraneo orientale, l’episodio del regno latino e finalmente, quasi con sollievo, la caduta. Non un lutto per l’Occidente, ma la scomparsa di un’anomalia. In modo curioso solo nel momento in cui Costantinopoli diventa Istanbul e l’impero cade fuori dall’Occidente, solo nel momento in cui da bastione si trasforma in avamposto e cuore di una nuova minaccia, la città che fu Bisanzio torna ad attrarre gli storici.
La vecchia Bisanzio resta nel linguaggio corrente sinonimo di inutilmente complicato, di vacuamente raffinato, di decadenza. Bisanzio è intrigo, è sesso per il potere, è lo scandalo di Teodora attrice del circo, di Teodora imperatrice. Bisanzio è tutto quanto la civiltà dell’Europa cristiana rifiuta. Eppure solo a Bisanzio dovunque appaiono le scritte che inneggiano a Cristo Basileus, a Cristo re. Solo a Bisanzio gli imperatori rinunciano sulle monete alla boria di una rappresentazione fisiognomica fedele per ridursi a sola immagine simbolica di una regalità che non è dell’uomo seduto sul trono, ma è di Cristo.
Il grande contrasto tra latini e greci, le ferite di uno scisma fondato sul dirittto alla supremazia sul mondo, hanno nascosto forse per secoli un sospetto più profondo, la divaricazione di due civiltà sviluppate dallo stesso ceppo, che si sono avviate su concetti diversi di individuo e di libertà. Con tutte le restrizioni cui era sottoposto, il mercante veneziano doveva vedere con lo stesso raccapriccio con cui un liberista d’oggi considera l’organizzazione economica delle defunte democrazie popolari, la rigida organizzazione economica di Bisanzio, che qualcuno ha definto il paradiso del privilegio e del protezionismo.
Nel disordine della Mesa, il mercato di Bisanzio, tutto era contemplato secondo una legislazione minuta che prevedeva chi doveva acquistare da chi, chi doveva vendere a chi. I sostenitori del liberismo uber alles difficilmente potrebbero immaginare che un mercato così vincolato potesse prosperare. Forse per questo, oltre che per l’evidente solidarietà ortodossa, gli studi su Bisanzio si sono sviluppati nel 900 soprattutto negli istituti sovietici.
Sulla storiografia dell’Urss suonava programmaticamente la convinzione che veri artefici della civiltà fossero i paria della terra. Pesava il pregiudizio che l’unica storia degna di essere studiata fosse quella delle classi popolari. Alexander Petrovic Kazhdan ha partecipato da protagonista a questa stagione finché… “Questo libro ha un esordio inaspettato”, scrive nell’ introduzione Silvia Ronchey, allieva trepida e appassionata del grande storico morto di recente. “Questo libro ha un esordio inaspettato: un’ammissione di sazietà per lo studio delle classi lavoratrici”. Quella che Alexander Petrovic pubblica nel 1974 nell’Urss di Breznev, è un’opera di revisionismo storico o almeno di aggiustamento storico. E’ l’affermazione che non solo, non tanto è importante la storia delle classi subalterne, ma che per capire una società è necessario ricostruire la storia di quelle classi sociali che il potere gestirono. Intanto Alexander Petrovic era emigrato in America.