Ipazia, martire della scienza
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Ipazia, martire della scienza Geniale e brillante, suscitò l'invidia fatale del meschino vescovo Cirillo
La pulsione alla conoscenza, fondamentale nutrimento dello spirito, rappresenta quell'interna sollecitazione che spinge a superare la personale limitatezza nel contatto con le fonti del sapere, le sole in grado di fornire gli strumenti per realizzare un'evoluzione dell'Io verso livelli superiori di relazione con se stessi e con gli altri. Chi del sapere si ciba nella maniera giusta possiede quindi i mezzi idonei per orientarsi con più sicurezza nel mondo, ed intervenire in maniera più incisiva sugli eventi, affermando la propria idealità. La cultura diventa così un vero privilegio. L'accesso agli strumenti del pensiero è stato, nelle passate età della storia, considerato esclusivo appannaggio del sesso maschile, e quindi assolutamente precluso alle donne, educate ad esprimere le loro potenzialità più col corpo che con l'intelletto. La storia tuttavia, anche quella della conoscenza, evolve grazie ad "agenti di rottura" che, portando caos e disordine nella complessità degli eventi, favoriscono l'evoluzione del cambiamento. È il conflitto tra vecchio e nuovo a fare la storia, tanto più affascinante nelle sue vicende quanto più centrata su individui capaci di abbattere attraverso le loro azioni qualsiasi schema precostituito. Sconvolgendo ogni aspettativa legata ai ruoli femminili, una donna di nome Ipazia, vissuta nel quinto secolo dopo Cristo, grazie alla fertilità del suo ingegno, acquisì un tale potere in Alessandria d'Egitto da suscitare grande rispetto e considerazione nei suoi concittadini, ma anche marcato risentimento e odio nei potenti. Tanto si è detto di lei e tanto forse si è taciuto, al punto che non è stato mai facile distinguere, nelle varie storiografie, la verità dalla menzogna. L'unica certezza è che Ipazia è stata contraria a qualsiasi forma di mistificazione e manipolazione, e amante della verità sopra ogni cosa. Figlia del filosofo Teone, non si limitò agli insegnamenti tecnico-matematici da lui praticati, ma si diede alla filosofia pura, arrivando a un tale livello di saggezza e di capacità dialettica da superare tutti gli altri studiosi della cerchia. La sua vicenda si colloca in un periodo storico di guerriglia civile e religiosa, corrispondente alla fase di trapasso dal paganesimo al cristianesimo, asceso a religione di Stato. Una delle conseguenze della supremazia del nuovo credo rispetto al vecchio fu il passaggio di potere politico dal filosofo al vescovo, accompagnato dal diffondersi di un sentimento di intolleranza verso la "hellenike diagoge", ossia il tipo di educazione ellenica cui la classe dirigente pagana si ispirava: punto d'incontro tra ideale classico e impegno nella vita pubblica, in rispetto dei valori del pluralismo e del dibattito, tipici dell'antica "agorà". Ipazia incarnò così la superiorità del paganesimo, con il suo pluralismo e la sua apertura, rispetto alla dogmatica chiusura dei monoteismi; ma pagò con la vita la fedeltà a tali ideali. Con la scrupolosità e il disincanto tipici di chi si accosta ai fatti storici consapevole delle inevitabili trasfigurazioni operate dalle diverse mediazioni interpretative, Silvia Ronchey, docente di Filologia classica e Civiltà bizantina all'università di Siena, nel libro "Ipazia. La vera storia"(Rizzoli, pp. 318, euro 19), cerca di «istruire un'inchiesta» sulla figura dell'eroina della conoscenza, per ricostruirne il profilo e leggere la storia del suo sacrificio in maniera autenticamente laica e, per quanto possibile, vera. La descrizione della personalità di Ipazia rimanda l'immagine di una donna non più giovanissima ma bella, poco incline alla frivolezza e dalla natura ascetica. Ai discepoli, alcuni dei quali pervasi da sentimenti d'amore nei suoi confronti, era solita spiegare che l'eros intellettuale e la passione fisica erano sollecitazioni dell'animo distinte e separate. Tuttavia quanto Ipazia era morigerata nella vita e nei sentimenti, tanto era diretta, quasi brutale, nel modo di fare e di parlare. «Lo stile dei suoi discorsi era così franco da essere secondo alcuni elegantemente insolente», scrive la Ronchey. Ma la sua «elegante insolenza» e il largo consenso che riscuoteva presso i giovani di Alessandria finirono per suscitare un sentimento di rivalità malevola in coloro che consideravano ormai legittimato dalle leggi il loro potere temporale. Sia Socrate Scolastico, storico cristiano, che l'enciclopedista bizantino Suida parlano di "phthonos personificato" che si levò in armi contro di Ipazia. Letteralmente il termine greco traduce una «gelosia per l'eccellenza altrui»: quel sentimento quasi ossessivo di invidia che colpì e infiammò il vescovo Cirillo nel momento in cui constatò di persona il prestigio di cui Ipazia godeva. I sentimenti d'invidia del vescovo trovarono esatta rispondenza nel "pericoloso zelo" di gruppi di monaci cristiani e parabolanti che concepirono – secondo sia Socrate Scolastico che Suida – un piano criminale contro la "donna di mondo". Così un giorno di marzo del 415 dopo Cristo, nel quarto anno dell'episcopato di Cirillo, mentre Ipazia tornava a casa da una delle sue pubbliche apparizioni, fu tirata giù dalla carrozza e trascinata nel Cesareo, da poco trasformato in chiesa cristiana. Lì fu spogliata delle vesti, massacrata con cocci aguzzi, e i suoi resti trasportati al cosiddetto Cinaron, per essere dati alle fiamme. Ben diverso è il racconto dei fatti riportato nella "Cronaca" del vescovo Giovanni di Nikiu – vissuto nel settimo secolo e schierato con Cirillo – per il quale l'uccisione di Ipazia fu un'esecuzione legittima, quasi un titolo di vanto per il popolo dei fedeli che l'avevano compiuta: secondo la sua versione, i giustizieri non agirono nella clandestinità, ma raggiunsero la vittima nella sua stessa dimora, luogo in cui "ipnotizzava" i suoi studenti con la magia, ed esercitava la "satanica" scienza degli astri. Emblematicamente è dalla cattedra, non dalla carrozza, che Ipazia venne trascinata via. Più romanzata e meno cruenta la versione della morte nella trasposizione cinematografica del film "Agorà" di Alejandro Amenàbar, ove viene messo in primo piano quel fascino esercitato dalla donna sui discepoli, che non le risparmiò la morte, ma le diede una fine meno dolorosa: Ipazia, sarebbe morta per mano di Davo, suo ex schiavo nonché allievo, che l'aveva strangolata prima che gli zelanti la lapidassero. Il film inoltre, lascia anche intendere che se Ipazia non fosse stata assassinata dai cristiani, sarebbe stata capace di anticipare di ben dodici secoli il modello astronomico di Keplero, avendo avanzato già da allora l'ipotesi eliocentrica, sulle orme degli esperimenti di Aristarco. Tuttavia, l'esame delle fonti, purgato degli elementi di forzatura ideologica, sembra smentire lo stereotipo razionalistico e illuministico del "Galileo in gonnella", mentre conferma che furono proprio la figura carismatica e il ruolo politico di Ipazia a causare la sua morte, come effetto dell'eccesso di frustrazione di Cirillo. Ma la fiaccola di cui l'eroina della conoscenza è stata portatrice non si è spenta con la sua morte: molti uomini e donne hanno continuato a passarla. Attraverso loro, la philosophia di Ipazia e degli antichi pensatori di Alessandria arriverà all'Umanesimo e al Rinascimento e, tramite questo, all'Illuminismo e a quelle correnti d'opinione che hanno fatto di Ipazia il simbolo della libertà di pensiero. Nel mondo occidentale moderno, che forse non ha mai conosciuto abbastanza Bisanzio, la vicenda di Ipazia, non sempre compresa nei suoi corretti termini storici, è stata talvolta "attualizzata" ed adattata ai tempi. Il conflitto tra un Cirillo ed un'Ipazia si è così più volte riproposto nei secoli, e certamente tenderà a riproporsi. Ma ogni volta che ciò dovesse accadere, non si potrà fare a meno di essere dalla parte di Ipazia.