L'uomo che sussurra agli alberi
Scrittore, disegnatore di giardini, collezionista, mistico Umberto Pasti ha fatto delle sue passioni un’opera d’arte Come dimostra anche il nuovo libro, “Arabesco”
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Ci sono persone che rinunciano alla propria vita per far vivere la propria arte — una minoranza dell’umanità alla quale non cesseremo di essere grati. Ci sono persone che fanno della propria vita un’opera d’arte lasciando che se ne disperda ogni traccia come un mandala — altra minoranza alla quale va tutta la nostra invidia. Ci sono poi persone — una percentuale minima dell’una e dell’altra minoranza — che riescono a fare entrambe le cose: raccontare con arte l’arte della vita, realizzando un’arte al quadrato che è di pochi.
Uno di questi pochi fortunati (o forse no: la combinazione è di una difficoltà devastante), chissà se predestinati, segnati alla nascita dall’influsso di qualche jinn, è, nella nostra generazione, Umberto Pasti. Bompiani ha appena pubblicato Arabesco, il suo più recente libro (221 pp., ≠≠≠ €), dove l’arte della scrittura e quella della vita si sovrappongono procurando al lettore vertigini simili a quelle di un paio di occhiali che montino lenti così diverse da un occhio all’altro da mostrare una realtà continuamente fluttuante tra due piani ugualmente veri e precisi.
Di Umberto Pasti e di quello che fa possono darsi (e lui stesso dà) definizioni materialmente veridiche (giornalista, scrittore, disegnatore di giardini) quanto profondamente depistanti. La verità e che Umberto Pasti è un mistico. Fin da ragazzo il suo sport preferito era precipitare dentro un muro di moschea rivestito di piastrelle di Iznik, dove il coincidere di superficie impenetrabile e profondità abissale gli provocava la beatitudine dell’abbandono. Già allora camminava, lì, tra fiori giganteschi, che gli parlavano del loro mondo misterioso, del loro regno. In seguito, a parlargli fu un albero di fico, o forse lo spirito che lo abitava, suggerendogli, mentre dormiva ai suoi piedi su una collina spoglia del Nordafrica, in riva all’Atlantico, di trasformare quel deserto in un giardino che come la biblioteca di Babele contenesse del regno vegetale tutto ciò che era, che era stato, che sarà. Ancora oggi, nello stupefacente hortus di Rohuna, Umberto Pasti è sovrano e suddito di quel vivente che di gran lunga domina ogni altro, costituendo dell’essere del mondo, e dunque della sua anima, la stragrande parte.
Con gli alberi, coi fiori, con le piante Umberto Pasti parla sempre e ovunque: con la foglia tigrata dell’aloe sperduta nello spartitraffico, gli eserciti in rotta di sterlizie in fiore sotto le plastiche polverose delle botteghe costiere. Parla anche con gli oggetti, col giardino polimorfo di antichi lari e presunti inanimati penati della casa tangerina dai tre corpi — un nucleo principale, due padiglioni avventurosamente costruiti palmo a palmo — che respirano tranquilli nel giardino di Tebarek Allah, protagonista del suo arabesco. Parla, soprattutto, con gli spiriti. Il suo libro è un dialogo col duende, l’entità di cui un poeta andaluso, Lorca, ha spiegato il gioco e la teoria, e che in questo caso è il genius della casa, la forza misteriosa che emana lo spirito della terra, ma anche sempre, al contempo, l’ispirazione, la musa, il genio vivo di ogni creazione, lo stile della prosa come dell’atto. Ma non è certo il duende personale, o della casa tangerina, l’unico fantasma che detta a Umberto Pasti la scrittura stregata di questo libro.
Umberto Pasti è un collezionista. Di begonie, felci, araliacee, palme da ombra; di mobili e soprammobili in legno dipinto dei berberi Jbala; di bifacciali, raschiatoi, lame, asce e altro materiale litico dal paleolitico al neolitico; di ceramiche di scavo e piastrelle medievali; di tessuti ricamati e a telaio, di kilim marocchini e frammenti di tappeti anatolici, caucasici, iraniani; di contenitori di paglia; di giocattoli e bambole antecedenti l’era della plastica; di violini fabbricati da pastori con lattine dell’olio, zucche, conchiglie, pezzi di lamiera; e si potrebbe continuare, non fosse che non sono queste le sue collezioni più importanti.
Checché ne dica nel suo libro, Umberto Pasti è soprattutto un collezionista di persone. O, meglio, di vite. Quando la storia comincia, negli anni 70, e l’autore e il suo compagno di viaggio, un giovane dagli occhi d’argento che sarà il suo compagno di tutta la vita, si sperdono su una R4 malandata nei meandri del nord del Marocco, sono i tempi degli ultimi expats approdati a Tangeri al tramonto dell’impero britannico, in cerca di asilo dopo uno scandalo o forse di facilitazioni fiscali, insabbiati nel villaggio dimenticato divenuto la Città Internazionale in capo a tre decenni di annessione al Marocco. Sono i tempi delle ultime cene nelle case della Vieille Montaigne, delle ultime feste in maschera coi costumi sempre più lisi.
I vecchi scrittori, scrive Pasti, morivano. Ma la vecchia casa moresca che i due giovani hanno appena comprato da un professore americano in pensione e che abitano all’inizio precariamente, accampati fra stuoie, tappeti, lanterne e cuscini, via via respira e si costruisce contemporaneamente di pietre e di piante, di parole e di persone. Diventa un porto di mare, o di anime. Il poeta oppiomane americano travestito da libellula, Paul Bowles che russa coperto da uno scialle, l’ambasciatrice ricoperta di pizzi e giri di perle come una dama edoardiana, inseparabile dal suo asino. Il giardino di mobili, di oggetti, di piante diventa rigoglioso come quei tulipani di varietà sconosciute, ibridi sorprendenti, pappagalli e fenici, ornitogali arancioni, fritillarie luttuose, ranuncoli rossi e oro, agli gialli e agli neri risplendenti di lacca come in un antico capriccio botanico fiammingo, portati in dono da Amsterdam, con sublime bizzarria, da una delle vite all’autore più care: quella di Patrizia Cavalli, la cui impronta è incastonata, con verità e grazia infinita, nella Wunderkammer della sua prosa.