Guido Piovene. Scomodi fantasmi
Per le sue simpatie politiche lo chiamavano il 'conte rosso' ma era anche considerato uno scrittore cattolico. I lettori ci hanno chiesto di raccontarlo
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Guido Piovene era un conte — il “conte rosso”, lo avevano chiamato, per le sue peraltro altalenanti simpatie di sinistra, in quegli anni Sessanta in cui raggiunse il massimo della fama ma da cui fu poco capito. Veniva dall’aristocrazia vicentina, dalle sue ville palladiane, dai suoi chimerici paesaggi e retaggi di cui amava esibire con provocatorio dandismo le insegne esteriori — lo si poteva incontrare alle cene in giacca da smoking di broccato e ballerine settecentesche di vernice — tanto quanto denunciare gli interni dissidi, l’intossicante miscela di capricciosità e bigotteria, la sostanziale inconsistenza.
Nei repertori letterari, Piovene continua a essere presentato come uno scrittore cattolico. Forse perché tale fu la sua educazione, o forse perché il suo libro più noto, almeno in vita e in parte grazie all’omonimo film di Alberto Lattuada, furono le Lettere di una novizia — quel terribile romanzo epistolare che raccontava le ipocrisie e le peripezie psicologiche di una monacazione forzata; che prendeva di mira la “dissimulazione onesta” della tradizione gesuitica, come capì, nel recensirlo, un lettore del calibro di Benedetto Croce; in cui “malafede” e “pietà” si intrecciavano programmaticamente, nelle parole stesse della prefazione dell’autore.
Oggi lo si definirebbe, piuttosto, uno scrittore gnostico. Per Piovene, filosofo di formazione (con una predilezione per Spinoza), pessimista per vocazione, minuzioso e visionario esploratore dei lati più oscuri della natura e della psiche umana (La gazzetta nera, Le furie) “l’arte non può che raccontare il male”. Una visione scomoda e comunque poco di moda, nell’età in cui gli fu dato vivere, quel dopoguerra italiano animato da un culto dell’avvenire e da una distinzione netta, settaria se non, appunto, chiesastica, tra bene e male, dove il bene corrispondeva alla fede nell’una o nell’altra ideologia: in un’urgenza di “prendere partito” che offendeva anche il suo chiaroscurale approccio moralistico, il suo eclettismo illuministico, il suo disincanto filosofico, e non ultimo il suo senso estetico.
Degli italiani amava Manzoni — fu tra i pochi a memoria d’uomo capaci di capirlo profondamente e chiosarlo con assoluta chiarezza — e Nievo, Saba e Cecchi. Sulla gran parte della letteratura contemporanea del suo paese era critico e scettico. “Io appartengo a una speciale razza d’italiani” — scrisse in uno dei suoi folgoranti saggi, Sulla letteratura italiana contemporanea — “quella dei tardivi, dei pazienti, dei nemici dell’improvvisazione, di quelli che detestano l’intervento forzato, le posizioni assunte poi abbandonate, nel dibattito quotidiano delle idee”. Memore forse, nella sua formazione cattolica, che il peccato più grande è la malizia di chi prima abbraccia ciò che fa comodo e poi si convince di farlo per fede: “E si può dire che allora [nel tempo fascista] ero quasi ossessionato da un unico argomento: la malafede. Non però quella cosciente, ma quella incosciente, tipica delle dittature, che viene da un’unione paradossale di acutezza d’ingegno e mancanza di chiarezza; e in cui l’ingegno acuto trova gli infiniti espedienti mediante i quali l’uomo viene a compromessi con se stesso, gioca con la verità, vuol farsi credere ciò ch’è utile credere”.
Piovene amava il gioco d’azzardo e i viaggi. Dal Viaggio in Italia, nato per la Rai, al De America e a Madame La France, nati come reportage giornalistici ma divenuti classici della letteratura, la lucidità del suo sguardo poteva avventurarsi su altre mani di carte, eludere i conformismi e scavalcare i luoghi comuni italiani nell’esercizio spensierato di una ricerca di verità sociale e politica, quanto estetica e letteraria, che per lui era urgente.
Fra i tanti scrittori stranieri, esponenti di letterature che almeno per gli ultimi due secoli giudicava superiori alla nostra (sottolineando con ironia “i motivi di un certo scarto, di un certo sfasamento tra la letteratura italiana e le altre”), amava Twain e Camus; del mondo russo l’Ottocento di Tolstoj e Dostoevskij, il cui fantasma incontrò nel suo romanzo più autobiografico e insieme più filosofico, Le stelle fredde (Premio Strega 1970), sotto il totemico ciliegio che in quel libro rappresenta e racchiude la forza mistica di un’anima del mondo descritta tuttavia con sguardo quasi strutturalista: “… d’improvviso mi accorsi che l’albero parlava, con un linguaggio suo che non mi era intelligibile. I petali erano segni, parti di una scrittura che formava parole collegate in un numero infinito di combinazioni. Io potevo, partendo da uno di quei piccoli fiori, sviluppare una frase, passando con l’occhio su un altro, e poi su un altro e un altro… L’albero aveva espresso un immenso vocabolario, ma la meraviglia maggiore era che tutti i suoi vocaboli vi erano già collegati in infiniti modi, tutti i pensieri detti in uno stesso istante, anche se io potevo percorrerne solamente qualcuno senza capirne il senso: lo stesso avviene con i sogni, con gli animali e con i morti”.
Piovene amava gli animali e la morte del suo cane fu per lui un dolore così grande da renderlo melancolico per anni. E credeva ai fantasmi. Quando per la prima volta incontrò Fellini, nella sua casa di Fregene, tra i pini, in un’umida serata di settembre, i due parlarono per ore, febbrilmente, non solo narrandosi le esperienze fatte con Gustavo Rol, amico di entrambi, ma scambiandosi i racconti dei propri personali incontri con l’uno o l’altro tipo di fantasma e discutendone la definizione stessa. Per entrambi, il fantasma non era né sogno né visione né tanto meno archetipo o simbolo, ma una realtà empirica e tangibile, emanata dall’esperienza. Chi dei due fu un artista più grande nel dare ai propri fantasmi vita e forma, con linguaggio complementare e diverso, è difficile dire. Ma la loro statura svetta indubitabilmente, e parallelamente, sull’Italia di metà Novecento.
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