Silvia Ronchey

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Attualità e rubriche

L'incontro tra Amore e Sapienza

Lettere da Bisanzio

24/02/1999 Silvia Ronchey

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Avvenire

Come raccontano gli invitati di Macrobio nei Saturnali (II, 8,16), Ippocrate sentenziò che il connubio amoroso è una for­ma, leggera, di epilessia (tén synousìan èinai mikràn epilepsìan).
«Chiunque ami troppo ar­dentemente la propria moglie è già adultero», scrive Girola­mo, citando Sesto Empirico (Sentenze, 231): omnis ardentior amator propriae uxoris adulter est. Sarà ripreso da Pietro Lombardo, il primo emulatore occidentale di Gio­vanni Damasceno. La stessa idea si trovava, secoli prima, a Bisanzio, negli scritti dei Pa­dri cappàdoci, a partire da Ba­silio (Omelie, 21, PG 30, col. 548; Epistole, 46, PG 32, coll. 369-371).
Per una metamorfosi che De­nis de Rougemont ha descritto nel suo capolavoro, L’amore e l’Occidente (ora ristampato in italiano nelle Bur Saggi dopo quasi un quarto di secolo dal­la sua prima uscita), quell’e­ros «troppo ardente» dei pa­gani, tanto rimproverato dai primi cristiani e condannato nei trattati medievali, sarebbe riemerso negli scritti dei mi­stici in tutta la sua fenomeno­logia e patologia psicosomati­ca. Sarebbe stato riferito però alla tensione dell'anima verso quell’oggetto invisibile e inde­finibile del desiderio che è, fin dalla teologia negativa di Bi­sanzio, il divino.
La trasposizione prende le mosse dalla geniale esegesi al­legorica di Origene al Cantico dei Cantici (PG 13, col. 68); ri­torna, nella stessa contrappo­sizione di eros (l’amore-passione, l’amore-tensione), ad agape (l'amore frater­no, la charitas paolina), in un libro car­dine della mistica bi­zantina, il De divinis nominibus dello Pseudo-Dionigi Aeropagita (PG 3, col. 709).
Per questi teologi d’Oriente si definisce eros la tensione del­l’anima, che come la Sulamita cerca sempre, e non trova, lo sposo: la fusione con l’altro, il recupero del proprio sé inte­ro, l’identificazione col tutto. «Sul mio giaciglio, lungo le notti, ho cercato quel­lo che la mia anima ama: l’ho cercato, e non l’ho trovato». Riecheggiata per se­coli dalla musica sa­cra, amplificata do­po il Concilio di Trento dai melismi di Monteverdi, que­st’ansia, alla base di ogni azione psichica, sarebbe riemersa nella psicanalisi.
All’èros filòhylos, al desi­derio il cui oggetto è materia­le, le Scritture avevano già op­posto un modello di eros su­blimato: l’amore sapienziale (èrostès sophìas). Basta pen­sare a Proverbi IV 6, 8 o a Sa­pienza VIII, 2: «Non la lascia­re, e ti accudirà. Amala, e ti terrà con sé. Aggrappati a lei, e ti solleverà. Quando l’avrai abbracciata, sarai riscattato». «Lei ho amato e cercato fin da adolescente. / Ho cercato di sposarla, / innamorato della sua bellezza».
A questo amore dell’anima terrena per la sapienza, già ce­lebrato da tutto il platonismo greco prima che giudaico, fa da pendant celeste il delirio di­vino della creazione e dell’in­carnazione, anche questo defi­nibile come «incantamento erotico» ("delirium creationis atque incarnationis "thélxis erotiké" est); lo sostengono i teologi bizantini, fino al mi­stico trecentesco Nicola Cabasilas (De vita in Christo, 6, PG 150, coll. 645-648).
Ma la dimensione più vera dell’eros mistico, descritta da quello che Hans-Urs von Balthasar ha definito il più grande teologo di tutta l’anti­chità, Gregorio di Nissa, è estetica: alla base di ogni moto della psiche è l'èros tou thèiou kàllous, il desiderio erotico del­la bellezza divina.
La spinta di psyché è mi­metica, in quanto partecipe dell’archetipo nella sua aspi­razione al meglio, ma ridivie­ne tensione verso l’archetipo stesso, nel moto circolare e per­petuo che è proprio del pensie­ro mistico. È Gregorio di Nis­sa, nella sua prima omelia sul Cantico, a chiarire in modo de­finitivo la relazione tra eros e agape: «È detto eros l’amore che porta in sé un’indefinita tensione».


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