Silvia Ronchey

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Attualità e rubriche

L'«ecce homo» di Ildegarda

Lettere da Bisanzio

24/12/1998 Silvia Ronchey

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Avvenire

«Simon Pietro disse loro: "Maria si allontani da noi, poiché le donne non sono de­gne della Vita!". Gesù disse:" Ecco, io la trarrò a me per renderla maschio, perché an­che lei divenga uno spirito vi­vo simile a voi maschi. Per­ché ogni femmina che diven­terà maschio entrerà nel Regno dei Cieli». È un capitolo (121) del Vangelo di Tommaso il più famoso dei testi gnostici ritrovati nel 1945 a Nag-Hammadi.
L'insegnamento lasciato sepolto nel V secolo dall’apocrifo gnostico bizantino riaffiora in uno scenario medioevale tedesco. È l'inizio del XII secolo, siamo in riva al Reno. La mo­naca siede davanti a uno scrittoio, sorretta dall’alto schienale di una sedia. È pronta a scrivere o trascrivere qualcosa: tiene in mano l’occorrente, due tavolette di cera nera a due colonne ciascuna. È nera anche la veste clau­strale, ricoperta di un mantello marrone, e le maniche della cotta bianca stringono i polsi che reggono lo stilo. Nella miniatura del suo Liber, ancora oggi consultabile tra i mano­scritti della Biblioteca Governativa di Lucca, la santa ha relegato in basso, in un piccolo riquadro illuminato, questo autoritratto. Il viso è rivolto ver­so la parte principale del fo­glio, che la sovrasta con la visione da cui traboccano lingue di fuoco.
Ildegarda di Bingen, badessa di un piccolo convento ma dotata di grande genialità, era detta la Si­billa del Reno per il dono profetico che esercitava, riconosciuto da papi e imperatori, nella predicazione e nella politica, ma anche per la scrittura vi­sionaria che consegnava ai suoi libri. «Nel millecentoquarantunesimo anno dall’Incarnazione, quando avevo quarantadue anni e sette mesi, una luce di fuoco abbacinante, pro­veniente dal cielo aperto, calò sulla mia inte­ra mente e su tutto il mio corpo e pervase il mio petto, come una fiamma che non ustiona ma brucia nel suo calore immenso... Vidi un’enorme sfera, rotonda e piena d’ombra, meno larga sulla cima più ampia nel mezzo, ma, stretta alla base, con dalla parte esterna un cerchio sfolgorante di lu­ce e al di sotto una sacca tenebrosa e in quella sacca un fuoco oscuro che mi ispirava orrore, colmo di pie­tre appuntite piccole e grandi...».
Assistita dal vecchio confessore Volmar e dalla giovane e aristo­cratica consorella Richardis, da lei amata «co­me Paolo amò Timoteo», la monaca Ildegar­da impiegò dieci anni per trascrivere nella sua prima opera, lo Scivias, letteralmente Cono­sci le vie, «i misteri, i segreti e le implacabili visioni». La tormentavano da quando ne ave­va cinque e solo quando superò i quaranta si consentì di consegnarle alle parole e alle im­magini del suo manoscritto miniato, appun­to il Libro delle opere divine della Biblioteca Governativa di Lucca. Tacere ciò che vede­va e sapeva le aveva fatto tra­scorrere una giovinezza ma­cerata nell’ansia, «soffrendo nel midollo e nelle vene della carne, con lo spirito e la ra­gione contratti e in preda a grandi patimenti corporei».
«È donna chi non ha l’intelletto maschio che sradica dalla sua memoria tutte le pas­sioni, che sono femmine, chi non sa servirsi di quella sola collera, che è potenza dell’anima distruttrice dei pensieri», ha scritto nel IV se­colo il mistico bizantino Evagrio Portico nel­le Centurie (47). Arrivata a quarant’anni, Il­degarda udì una voce parlarle al maschile, chiamarla homo. «L’uomo che ho voluto e ho introdotto per mio arbitro e capriccio nelle grandi meraviglie - diceva la voce - l’ho steso a terra, perché non si rialzasse in esaltazione di spirito. Il mondo non ha prodotto in lui né gioia, né diletto, né progresso nelle cose che gli erano proprie, perché l’ho privato di qualsiasi aggressività e ostinazione, facendolo rima­nere timoroso e spaventato, senza alcuna si­curezza di sé».


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