Silvia Ronchey

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Attualità e rubriche

I colonnelli e i bibliofili

Lettere da Bisanzio

29/04/1999 Silvia Ronchey

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Avvenire

Nella Grecia degli anni Sessanta il regime dei co­lonnelli epurò il testo, po­liticamente eversivo, delle commedie di Aristofane, che invece nell’autocrazia di Bisanzio per un millen­nio non solo non subì mai la censura, ma fu incluso tra gli autori canonici, stu­diato nelle scuole, copiato dagli scribi, edito e com­mentato dai filologi. Og­getto di cura e culto istitu­zionali, fu consegnato al­la modernità.
Se oggi possiamo legge­re la commedia e la trage­dia antica, Omero e Pin­daro, Platone e Aristotele, è grazie non alla casuale e saltuaria virtù dei papiri ellenistici, che dei testi clas­sici hanno trasmesso una frazione minima, ma alla classe dirigente bizantina. Spesso identificandosi con l’élite intellettuale (Fozio, l’autore della Biblioteca, divenne patriarca di Co­stantinopoli, Psello fu Console dei Filosofi e pri­mo ministro), questa clas­se si fece carico di tutta o quasi la tradizione mano­scritta della letteratura poetica, storica e filosofica classica.
Fu un peso culturale an­che doloroso, opprimente, per uno scrittore spesso dif­ficile da conciliare con la creatività, «La parola è fi­nita, tutto è già stato det­to», scriveva nel Trecento il critico letterario e potente dignitario Teodoro Metochita, che dall’allievo Niceforo Gregora vene definito u­na biblioteca vi­vente» e che oggi appare con un turbante già turchesco nei mosaici di San Salvatore in Chora, l’odierna Kariye Djami, a Istànbul. Attraverso le tappe di un umanesimo orientale scandito in più ri­nascenze (studita e macedone, comnena e paleologa), gli intellettuali bizan­tini trasmisero la loro ere­dità direttamente agli umanisti dell’occidente, promuovendo an­che quaggiù la riscoperta dei classici in una Rinascenza, che per loro fu l’ulti­ma, per noi la prima.
Fozio faustia­no ed erasmia­no, recluso nell’oasi atticista del patriar­cato. Il platonico e vanesio bibliofilo Areta. Costanti­no Porfirogenito, l’enci­clopedista. L’esoterico Psello; il tendenzioso Tzetza; il prolifico Eustazio. Dopo l’esilio di uomini e scuole seguito alla Quarta Crociata (vera rovina del­l’impero di Bisanzio pri­ma e più dei Turchi), Mas­simo Planude, il monaco, il poeta, il matematico, l’intellettuale che promos­se alla corte paleologa il re­vival di Plutarco. Deme­trio Triclinio, il mitico «primo autentico critico del medioevo», il grande editore del teatro antico.
Il nesso tra filologia e poesia non è casuale né la­bile, come hanno dimo­strato gli studi sulla cul­tura alessandrina. Osses­sionati dalla tradizione, dalla «biblioteca», gli in­tellettuali di Bisanzio con­divisero la sindrome di Callimaco, insieme poeta e bibliotecario del Museo di Alessandria. Giorgio di Pisidia e Leone il Filosofo, Giovanni Mauropoda e Michele Coniata: i nomi dei filologi bizantini sono anche spesso nomi di poe­ti, seguaci di una versifi­cazione colta e riflessa. Ma una cultura dominata dal peso della tradizione e dal­la certezza che «tutto sia già stato detto» non è per questo decadente, se non vogliamo considerare tale anche tutta la nostra, a partire da Petrarca. Se la letteratura bizantina vie­ne ancora considerata ta­le è in virtù di un pregiu­dizio riguardante, prima ancora che quel miscono­sciuto millennio, una no­zione vitale per il nostro mondo occidentale presen­te: quella di Decadenza.


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