Silvia Ronchey

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Attualità e rubriche

Allegoria, paideia e crostacei

Lettere da Bisanzio

14/01/1999 Silvia Ronchey

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Avvenire

«Alcuni, davanti alla debo­lezza intrinseca delle scrittu­re giudaiche, anziché respin­gerle del tutto hanno preferi­to trovare loro una chiave di lettura (lysin), e si sono dati a interpretazioni arbitrarie e inconciliabili con quanto vi è scritto... Le loro esegesi mil­lantano per simboli le cose che Mosé ha detto con la più ba­nale chiarezza e le fanno pas­sare per oracoli di misteri oc­culti, stregando così, per af­fettazione virtuosistica, il sen­so critico dell’anima... Questo peculiare tipo di assurdità viene da un uomo che anch’io, quando ero molto giovane, ho incontrato, un uomo alta­mente stimato allora e tutto­ra celebre per gli scritti che ha lasciato: Origene... Allievo di Ammonio [Sacca, di cui fu di­scepolo anche Plotino], ricavò dal maestro il vantaggio di una grande dimestichezza coi testi filosofici... Pur essendo greco e formato nella paidèia ellenica, si orientò verso l’av­ventura barbarica... E benché ellenico e cioè pagano nelle opinioni sulla natura e sul di­vino, applicò la filosofia gre­ca a miti estranei».
I "miti estranei" ai quali fa riferimento il neoplatonico, ascetico Porfirio, uno degli ul­timi grandi filosofi pagani, sono la dottrina cristiana e in particolare i biblia, la Bibbia. «Infatti, convivendo inces­santemente con Platone, fre­quentando gli scritti di Numenio, dì Cranio, di Apollofane, di Longino, di Modera­to, di Nicomaco e dei grandi pitagorici, e servendosi anche di filosofi stoici come Cheremone e Cornuto, Origene mutuò da loro l’interpretazione allegorica dei misteri pagani, che applicò, appunto, alle scritture giudee».
(Questa testimonianza di Porfirio è tramandata da Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, VX 19,4-8).
Se ogni tradizione presup­pone un testo sacro, Origene fu il primo a intrecciare la let­tera cristiana alla tradizione sapienziale platonica (Stre­mata, "intrecci", si intitolava una sua grande opera perduta); fu il fondatore della civiltà bizantina del commento, perpetuata nell’Umanesimo e nel Rinascimento, prolungata nell’erudizione del Grand Siècle e morta solo nel Settecento col nascere della nostra civiltà della critica.
Origene, già per questo, fu forse il più grande gnostico cristiano: perché il commento di un testo sacro presuppone un mistero da decifrare, non solo e non tanto metafisico, ma precisamente insito in quel testo, o anzi costituito dal testo stesso, tanto da instau­rare una vera e propria teo­logia del Libro; come Origene fa nel Perì Archòn, una sto­ria cosmica dello spirito ri­calcata sul mito gnostico del­la caduta. Il Libro è Logos Mediatore, sophia e ponte fra il divino inconoscibile e perfetto e l’imperfetto, caduco spirito umano, che si distacca dall'unità originaria in cerchi di raffreddamento progressivi (psyché da psychesthai, "raf­freddarsi", secondo la pareti­mologia di Origene) fino a ot­tenebrarsi nella materialità dei corpi, per poi purificarsi e avviarsi all’eterno ritorno al­l’Uno. Qui non si prevede, co­me invece nel giudizio uni­versale cristiano, alcuna dan­nazione eterna: per il neopla­tonismo gnostico la pena, l'in­ferno, è già il mondo.
Un po’ come Lafcadio nei Sotterranei del Vaticano di Gide contrappone "crostacei" e "sottili", nella sua paidèia Origene si oppone a coloro che non superando l’antropo­morfismo dei resoconti bibli­ci non ne decifrano i messag­gi velati. La Bibbia sondata dagli Exapla e dai Tetrapla è detta da Origene un "mare di misteri" indecifrabili an­che dal senso comune del filo­sofo: «Quale uomo ragione­vole crederà che il primo, il se­condo e il terzo giorno fossero, di giorno e di notte, senza lu­na, senza sole e senza stelle, e che il primo fosse addirittura senza cielo?».


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