Dipingere la natività
Dall'astrazione bizantina fino alle composizioni del ventesimo secolo la raffigurazione del Natale si presenta come una sfida per il mondo dell'arte. In gioco non c'è la rappresentazione della realtà ma della sua percezione interiore
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Che cosa festeggiamo quando festeggiamo il Natale?
Tradizionalmente, diverse cose. Lo sprofondare del sole nel punto più basso dell’eclittica e dunque l’auspicio del suo risorgere: un rituale apotropaico che ha a che fare con l’ancestrale timore della tenebra, quindi una festa della luce. Di qui le luci con cui addobbiamo l’albero di Natale, residuo di un universale culto animistico degli alberi e della natura animata, del suo soccorso all’uomo. Nella congiuntura astronomica del solstizio d’inverno festeggiamo il Dies Natalis Solis Invicti, dal sincretismo romano associato al culto di Mitra. Di qui il presepe con i pastori e l’idea del coincidere della nascita o rinascita del sole con quella di un fanciullo “divino” che ne è la personificazione, come Mitra appunto, ma anche come il puer nascensdella quarta ecloga di Virgilio, che a sua volta si rifà alle aspettative messianiche di un’ampia tradizione ellenica e semitica.
Fin qui la sapienza, diciamo così, pagana. Ma con l’affermarsi del dio cristiano e della sua religio, che tra i suoi àtoutsha sempre avuto quello di raccogliere e riutilizzare, qua e là, i materiali delle tradizioni antiche, incluse le date delle loro festività, le loro iconografie, le loro concezioni mistiche e filosofiche oltreché strettamente religiose, si insinua qualcosa di un’audacia senza precedenti: l’idea che un’entità astratta, che si tratti della divinità solare indoiranica o del padre terrifico dei giudei, del Logos Spermatikos degli stoici o dell’Uno di Plotino, possa diventare carne, partecipare del mondo sensibile, farsi uguale ai suoi adoratori: l’idea dell’incarnazione del principio divino, tanto assurda (credo quia absurdum) che per cinque secoli almeno, fino al Concilio di Calcedonia, fu rifiutata da quelle che da allora vennero considerate eresie — il nestorianesimo, il monofisismo — che negavano o la natura umana o quella divina di Cristo.
L’acrobazia teologica del cristianesimo fu tenace nell’asserire che invece il bambino nato nel giorno del Natale del Sole, nella stessa spelonca di Mitra, vegliato da un bue e da un asino, adorato dai pastori, era insieme dio (quel dio) e uomo. Un’asserzione incomprensibile alle versioni del cristianesimo che avrebbero percorso l’oriente, ma tenuta salda dalla teologia, ossia la comprensione del divino, del mondo occidentale.
Non a tutti questa vertiginosa comprensione fu limpida. La devozione popolare non restò troppo diversa da quella dei culti che l’avevano preceduta. Ma il problema si pose a quanti dovevano spiegarla e diffonderla attraverso l’alfabeto universale dell’umanità di allora, l’immagine: agli artisti. Che, nel mondo e al tempo in cui la dottrina dell’incarnazione si formò e fu fissata dai concili, erano gli artefici di quelle che chiamiamo icone (eikonai, “immagini”). E che più dei teologi — non usando la sintassi del ragionamento ma quella della figura — affrontarono la quasi insormontabile difficoltà di rappresentare nella stessa immagine il divino (decretato irrappresentabile fin dagli esordi del platonismo cristiano) e nello stesso tempo l’umano (la cui rappresentabilità era corollario e garanzia del paradosso dell’incarnazione). Come rappresentare l’incarnazione del divino, un concetto eminentemente astratto? Con un’arte astratta, appunto. L’astrazione è fin dall’inizio la caratteristica dell’arte bizantina, che ha la sua massima sfida proprio nella rappresentazione del Natale: momento apicale della temeraria teologia introdotta da quella religione divenuta pervasiva, vincente, fondante la legittimità stessa dello stato.
Sono opere astratte quelle che vediamo sfilare nel libro di François Boespflug ed Emanuela Fogliadini, Il Natale nell’arte(Jaca Book): l’apparente schematicità, il mancato rispetto delle proporzioni, la scomposizione degli spazi, il prevalere della geometria sulla natura, del concetto sulla figura, accomunano le opere del Commonwealth bizantino, dalla Sicilia ai Balcani, dalla Cappadocia all’Egitto, da Costantinopoli a Mosca. Come il mosaico della Karyie Cami di Istanbul, già chiesa di San Salvatore in Chora, oggi minacciata dall’estremismo islamista di Erdogan, dove l’imbuto di luce cosmica discende come da un’astronave alla crisalide racchiusa nel rettangolo della mangiatoia; o come l’icona della scuola di Rublev nella cattedrale dell’Annunciazione del Cremlino a Mosca; fino alle composizioni del XX e XXI secolo ospitate alla fine del volume.
In questa processione di immagini si esplicita la parabola dell’arte cristiana: non figurativa ai suoi esordi, nella sua versione più colta, né ai suoi esiti, nell’arte propriamente astratta che si svilupperà dai primi del Novecento dalla teologia dell’immagine attinta a Bisanzio dai filosofi russi (Florenskij, Trubeckoj) e sperimentata dai pittori (uno per tutti Kandinskij) che riscoprirono l’inebriante possibilità di rappresentare non la realtà sensibile ma la sua percezione interiore, non l’oggetto ma il concetto, la sua risonanza psichica, la forma immanente il reale, la sua struttura spirituale.
Ma tra questi due estremi cronologici e vertici interpretativi si insinua qualcosa di alieno: l’arte del medioevo occidentale e i suoi sviluppi in quella del rinascimento e poi del barocco. Un’arte non filtrata, non rigorosamente almeno, dalla filosofia platonica e dal ragionamento teologico dei bizantini, e dunque tentata da una figurazione naturalisticadella Natività. Eppure, se guardiamo all’arte sacra occidentale con questi occhi, non potremmo essere sicuri che i pittori italiani, borgognoni, francesi, fiamminghi, nella loro arte più sensuale, più libera dai vincoli concettuali bizantini, nel mondo umbratile dei secoli bui e poi nello splendore teatrale delle corti, non abbiano riflettuto altrettanto sottilmente per mimetizzare ancora più accuratamente l’enigma che si presentava anche ai loro occhi. Guardiamo la Natività di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova, alla geometria sospesa della stalla, alla scomposizione degli spazi, allo sguardo della madre divina. O il Trittico Bladelin di Van der Weyden, dove ha ben poco di naturalistico l’homunculus che giace microscopico e rigido ai piedi di una vergine quasi impubere e giganteggia in cielo in una bolla splendente agli occhi dei pastori stupefatti. Siamo davvero certi che non siano, anche queste Natività, dipinti astratti? Occultati sotto uno strato solo apparente di figuratività?
Forse, quando si tratta di raffigurare l’astrazione filosofica che è al fondo del Natale, è già astratta anche l’arte occidentale.