Bisanzio nelle vene d'Europa
La Turchia e la UE: un'attrazione storica che ha segnato nei secoli la cultura del nostro continente
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Il nome Istanbul proviene dal greco demotico stin poli, «in città»: per tutto il medioevo Costantinopoli era «la città» per eccellenza, «la Città delle Città», come la chiamavano i cinesi. Il riverbero dell'oro delle cupole sull'acqua del mare faceva sì che un alone di luce circondasse l'architettura della Polis durante gli undici secoli dell'impero di Bisanzio e per tutto quello ottomano. Un alone abbagliante ancora fino alla visita di Hans Christian Andersen, che davanti alle migliaia di riverberi si sentì avvolto - scrisse - in un incantesimo di luce. Un bagliore vivo sino all'Istanbul fin de siècle, nella «splendeur deliquescente» dei palazzi degli ultimi padishah descritti da Gérard de Nerval. Oggi a Istanbul domina una gamma di toni che va dal nero al perla passando per il più frequente, il grigio piombo: la penombra fuligginosa dei vicoli della città vecchia anneriti dal komur usato come combustibile, il nero dei lustrascarpe, l'ombra dei caffè invasi dal fumo, e, sul Mar Nero, il travaso degli scarichi delle petroliere, oleosi e cangianti fra i pontili di Calata. «Le immobili moschee, che i secoli non mutano, erano forse più candide anticamente, quando i nostri vapori d'occidente non avevano ancora oscurato l'aria qui intorno e solo le imbarcazioni a vela di un tempo» scriveva Pierre Loti - «portavano la loro ombra». Il mondo ottomano era rimasto intriso di Bisanzio, ne aveva mutuato la cultura e i sistemi amministrativi. Istanbul aveva raccolto il mandato storico di Costantinopoli, la vocazione culturale e fisica di punto d'incontro tra Europa e Asia. Chiunque vada ancora oggi a Istanbul viene colpito dal trasbordo continuo, reale e metaforico, dell'una nell'altra. Affacciandosi dai vapurs bianchi che salpano al tramonto affollati di impiegati e pendolari da Ùskùdar e Kadikoy, si vede con chiarezza la doppia sponda in cui l'oriente, come diceva Cocteau, tende verso l'Europa «la sua vecchia mano ingioiellata». «Ci sono luoghi in cui la storia è inevitabile come un incidente automobilistico - luoghi in cui la geografia provoca la storia. Uno è Istanbul, alias Costantinopoli, alias Bisanzio», ha scritto losif Brodskij in Fuga da Bisanzio. Incidente è una definizione persino eufemistica per il rigurgito di intolleranza di cui in questo momento è vittima l'istituzione-simbolo dell'eredità bizantina in Turchia, il patriarcato ecumenico ortodosso. Al governo di Erdogan la storia vorrebbe attribuire ancora una volta il difficile compito di mediazione tra civiltà. La Turchia non confina solo con l'Europa: è stretta ai fianchi da Iran, Iraq e Siria, per non parlare di un'entità nebulosa e inquieta, anche se ancora divisa, come la nazione curda. E' questo il vero, grande problema: non di conservazione religiosa ma di gravitazione geopolitica. Non è stato mai convulso come ora il confronto tra l'identità asiatica della Turchia e la sua vocazione cosmopolita. Quella che si gioca oggi è una partita decisiva per lo Stato erede dell'impero bizantino, poi ottomano, come per altre cruciali zone del globo appartenute a quello russo e sovietico, ora altrettanto lacerate. L'eredità bizantina e europea della Turchia è vittima, in realtà, di un'intolleranza e di un'ideologia antioccidentale che si travestono da integralismo religioso mentre sono eminentemente laiche. Non si tratta di fanatismo islamico ma della xenofobia di una casta burocratica nazionalista, la cui aggressività ha poco a che fare con il Corano e molto, invece, con una chiusura politica all'ingresso nell'Ue. Non è un paradosso, quindi, che proprio mentre si tratta la sua entrata in Europa la moderna repubblica turca sembra stia facendo un passo indietro. Ma è un peccato, perché l'eredità dell'impero romano d'oriente aveva fatto della storia ottomana un modello di tolleranza religiosa. Ai fratelli perseguitati nell'Europa oppressiva i rabbini scrivevano: «Qui nella terra dei turchi non abbiamo di che lamentarci, tutti viviamo in pace e libertà». Il cosmopolitismo, l'attrazione per la cultura europea fanno parte dell'imprinting storico della Turchia. Dopo la presa di Costantinopoli del 1453 una parte della classe dirigente bizantina si era turchizzata e aveva influenzato in maniera determinante iniziative e strategie della Sublime Porta. Fu ugualmente un'èlite cosmopolita quella che si formò a partire dal 1830, quando Mahmùd II riapri le ambasciate all'estero e i figli del personale diplomatico presero a frequentare le scuole francesi e inglesi. Al rientro in Turchia questa nuova generazione rafforzò il partito riformatore e le logge filoccidentali. Nel 1863 venne fondata l'Unione d'Oriente, collegata al Grande Oriente di Francia, alla quale aderirono europei, levantini, ebrei, greci, molti armeni e anche musulmani. Da questi centri di propaganda si formò, a Istanbul e a Salonicco, l'ideologia del movimento giovane-turco. Nel 1898 il governo inglese diede il suo sostegno a quel movimento. Espressa nella rivolta del 1909, trasfusa dieci anni dopo, alla fine della Grande Guerra, nel nazionalismo kemalista, culminata nella proclamazione della repubblica e nella deislamizzazione degli anni '20 e '30, l'utopia politica ispirata dai Giovani Turchi fu l'ultimo tentativo di rifondere insieme quanto restava delle due anime, orientale e occidentale, del millenario impero radicato sull' istmo tra Asia e Europa. A chi lamenta lo spostamento a est del baricentro della nuova Europa, quella già fatta e quella ancora in fieri, si deve ricordare che è proprio quello l'asse di ciò che riconosciamo come denominatore comune della civiltà europea. La formidabile combinazione di cultura umanistico-filosofica greca e politico-giuridica romana, che fu propria del mondo tardoantico e dominò poi per undici secoli il Mediterraneo e le sue zone di irradiazione, ha continuato a sopravvivere per duemila anni nei territori dell'ex-impero ottomano, così come nelle province passate poi all'impero sovietico. Ben diversa l'eredità culturale di altri Stati islamici, come ad esempio la Siria, fin dal VII secolo usciti dal controllo politico e dal sistema economico dell'impero romano. Ma, se tutto questo è vero, è tanto più giusta la protesta del presidente della Repubblica Greca: è la prima volta che un paese candidato a entrare nell’UE detta le sue regole in campo religioso e giuridico, addirittura in materia di diritti civili. «Mi ha colpito», ha dichiarato Stefanopulos, «che il 17 dicembre a Bruxelles i rappresentanti dell'Ue siano stati svegli tutta la notte per discutere le richieste di Erdogan, invece di dirgli: ecco qui le regole per l'ingresso della Turchia in Europa. Se lo volete, questo è il conto da pagare».