Siamo tutti orfani di Bisanzio
Cultura, politica, religione: un mondo che equilibrava ovest e est. Il fantasma di quell'impero che aveva realizzato un'unità politica continua ad aleggiare sui conflitti etnici degli ultimi due secoli
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L’età moderna, si dice, comincia nel 1453, data della caduta di Costantinopoli. O nel 1492, quando la scoperta dell'America proiettò lontano dall'area d'irradiazione dell'impero romano e poi bizantino le rotte commerciali che per secoli si erano contese Genova e Venezia. Nel 1517, quando Lutero affisse le sue 95 tesi sul portale della chiesa del castello di Wittemberg. I tre eventi sono peraltro strettamente legati, ma non insisteremo su questo. Porteremo invece all'attenzione dei lettori una quarta data, il 1472, anno in cui ebbe luogo il matrimonio tra l'ultima erede della dinastia bizantina, Zoe Paleologina, figlia minore dell'ultimo sovrano Tommaso Paleologo, e Ivan III, Gran Principe di Mosca. Perché questa data, di poco successiva, o a seconda delle opinioni non molto precedente la cosiddetta nascita della modernità, segna la definitiva eclissi di Bisanzio dalla sua storia. Il matrimonio per procura si basò peraltro su una completa, persino beffarda falsificazione dei presupposti dogmatici della trattativa, che venne giustificata in Vaticano da argomenti al limite della beffa, in cui si avverte la mano occulta del cardinal Bessarione, il machiavellico genio politico bizantino infiltrato nella curia romana. C'è sempre lui dietro l'abile manovra con cui gli ingenti fondi per la «guerra santa contro i Turchi», custoditi nelle banche di Lorenzo e Giuliano de' Medici furono quasi interamente stornati per sovvenzionare l'operazione. Il dieci per cento dell'intera cifra andò peraltro a uno dei numerosi agenti di Bessarione, il vescovo Bonombra, in cambio di un'assoluta docilità all'iniziativa di riabbracciare l'ortodossia, che Zoe avrebbe preso appena messo piede in terra russa. Dopo otto settimane a Mosca il nunzio ne ripartì, a quanto è detto nelle fonti russe, coperto di doni. Il matrimonio tra l’ultima erede del trono di Bisanzio e il fondatore dell'impero russo era stato celebrato nel frattempo nella basilica dell'Assunzione e sarebbe stato base incrollabile della rivendicazione della corona di Costantinoli da parte di Mosca, che già si attribuiva il nome di Terza Roma. Dopo le nozze Ivan III assunse come simbolo l'aquila bicipite e in quanto sovrano di tutta la Russia rivendicò la successione giuridica, l'eredità ideologica e il ruolo geopolitico dell'ormai definitivamente estinta Bisanzio. Già prima si fregiava del titolo di cesare, osar appunto, e dell'epiteto «groznyj», «temibile», denominazione reverenziale propria dell'autocrazia bizantina, in cui il sovrano, rappresentante di Dio in terra, assume i suoi attributi giuridico-sacrali. A torto quest'epiteto verrà legato dalla vulgata occidentale a suo nipote Ivan IV e associato alla sanguinaria personalità di questi, Sarà Ivan IV, comunque, a portare a compimento e a dare espressione concreta all'ideologia della Terza Roma, nella linea più pura del pensiero politico di Bisanzio. Anzitutto, nelle celebri lettere al riottoso principe Andrej Kurbskij. A rivivere, nelle lettere del nipote di Zoe Paleologina, è precisamente la dottrina bizantina dell'autocrazia di diritto divino. E' da questa ideologia, a partire dalla quale Ivan IV soffoca il potere dei boiari e riorganizza l'amministrazione secondo i princìpi dello statalismo centralista bizantino, che nasce la Russia moderna. La concezione bizantina del potere e in qualche modo l'estetica del potere bizantino si perpetueranno attraverso l'impero zarista fino a quello sovietico di Stalin. Non sarà un caso se, quando vogliamo mostrare sul grande schermo qualcosa di realmente simile alla corte di Bisanzio, alle cerimonie, ai riti, ai gesti, ai comportamenti e alle psicologie narrate da Michele Psello o da Anna Comnena o da Niceta Coniata, finiamo, in tutta la filmografia novecentesca, per individuare una sola grande opera. Ironia della storia, le due pellicole di cui è costituita furono girate, specie la seconda, a prezzo delle censure di un potere autocratico talmente affine alla loro essenza da potervi essere, en travesti, raffigurato. Si tratta di due film veramente bizantini anche nell'ambiguità della loro veste: omaggio al potere e sua denuncia. Parliamo dell'Ivan Groznij di Sergej M. Ejzenstejn e del suo seguito, l'Ivan Groznij II ovvero La congiura dei boiari, usciti rispettivamente nel 1943 e nel 1946 come parti della trilogia mai conclusa sul sovrano di cui Stalin amava dirsi cultore e continuatore. Un'opera, come ebbe a sentenziare un critico della severità di Zdanov, «indubbiamente girata in stile bizantino». Il film di Ejzenstejn riesce a rendere l'essenza visiva della realtà storica bizantina: di quella scenografia del potere come apparato scenico che fu il primo contrassegno dell'autocrazia. La sovrapposizione tra le figure dell'autocrate moderno, Stalin, e di quello cinquecentesco, Ivan, è mediata, in Ejzenstejn, da una ricerca estetica guidata dalla storia e ipnotizzata dalla filologia. Non era passato molto tempo, del resto, dal dominio dei Paleologhi. Anzi, Ivan IV portava ancora il nome di Paleologo, ereditato da sua nonna Zoe/Sofija.
L'ombra dell'aquila a due teste si proietta dallo scettro sul volto dello zar fin dalla prima e più celebre scena dell'Ivan Groznij, la sequenza dell'incoronazione. Ivan riceve «direttamente da Dio» il globo sormontato dalla croce greca, che simboleggia la totalità del suo dominio e il riunirsi nella persona imperiale del potere secolare e di quello religioso. Niente è più bizantino del discorso che Ejzenstejn gli fa pronunciare. Mentre oppone alla poliarchia dei boiari l'unicità del proprio mandato di rappresentante in terra «dello Zar Celeste», Ivan avoca a sé anche il potere sulla chiesa. Gli anziani prelati sbiancano, si afflosciano sui loro scanni «Il papa non permetterà», «L'imperatore non ammetterà», «L' Europa non lo riconoscerà», sussurrano, nei loro frivoli, esotici costumi, i legati occidentali. Il fantasma politico di Bisanzio continuerà ad aleggiare, invisibile e incompreso, sui conflitti degli ultimi due secoli. Con la disgregazione dell'impero ottomano all’inizio del Novecento e quella dell'URSS alla sua fine, il ventunesimo secolo ha inaugurato la sua geopolitica all'insegna dei conflitti etnici tra quei popoli che l'eredità di Costantino aveva per tanti secoli unificato. Bisanzio, dopo la caduta delle monarchie europee da un lato e del muro di Berlino dall'altro, non è più continuata. Ma la sua fine recente lascia, dai Balcani al Mar Nero, dal Kurdistan al Caucaso all'Asia Centrale, una cortina di fumo e di sangue ancora non dissipata.