Istanbul, la femmina
Mentre sta lavorando alacremente a una grande mostra storica su Bisanzio che per la prima volta esporrà a Roma i tesori bizantini della Chiesa cattolica, accanto a quelli della Chiesa ortodossa e quelli del museo di Istanbul, Silvia Ronchey non trascura il lavoro di scrittrice, di studiosa e di divulgatrice della storia del Vicino Oriente. Così mentre è da poco più in libreria l’antologia realizzata con Tommaso Braccini Il romanzo di Castantinopoli, (Einaudi) che riscopre testi di scrittori, viaggiatori, filosofi e artisti sulle rotte della grande città turca, comincia ad accendersi l’interesse intorno al suo nuovo libro dedicato alla filosofa e scienziata alessandrina Ipazia, assassinata nel IV secolo d.C. da fondamentalisti cristiani. Con il titolo Ipazia, la vera storia uscirà il 10 novembre per Rizzoli . Un’interessante doppia uscita editoriale che ci ha spinti a cercare la docente di Filologia classica e civiltà bizantina dell’Università di Siena. Professoressa Ronchey, perché un nuovo libro su Ipazia? Cosa l’ha lasciata insoddisfatta dei molti titoli usciti nel 2010? È vero, c’è un affiorare nelle librerie e nei giornali di pubblicazioni su Ipazia ma molte sono riedizioni, sulla scia del successo del film di Amenábar. Così La Lepre ha ripreso il libro di Petta e La Tartaruga quello di Moneti Codignola. Io stessa avevo scritto su Ipazia in un volume miscellaneo uscito, ormai 17 anni fa, per Laterza. E da anni mi riproponevo di tornarci. Il fatto che siano uscite molte rielaborazioni letterarie, attualizzazioni e ricostruzioni libere, mi ha dato il la per tornare alla storia con metodo scientifico. Già alcuni mesi fa al convegno in Treccani lei aveva posto l’accento sulla complessità del contesto in cui Ipazia fu uccisa. Era un quadro complesso non riducibile a uno scontro ideologico fra cristiani e pagani. Da Diderot in poi ha preso campo la posizione illuminista che legge l’assassinio di Ipazia come l’uccisione del libero pensiero da parte di una Chiesa. Arrivando anche a vedere in Ipazia una proto-illuminista. Dal punto di vista storico, però, non possiamo trascurare che Ipazia era un’autorevolissima caposcuola di una confraternita platonica, dunque una teurga. Ma ci sono anche tanti altri punti da chiarire senza facili semplificazioni. Anche per questo ho pensato di aggiungere al mio libro un apparato di “documentazione ragionata”. Dove c’è quello che un lettore può voler sapere a partire da quanto racconto nella storia principale. Sono documenti che aiutano a capire la complessità di dibattiti come, per esempio nei secoli ha continuato a rappresentare la città, in origine era il simbolo di Artemide. Poi anche la Madonna così è diventata una divinità femminile e lunare. Questo simbolo della falce lunare campeggia anche nella bandiera ottomana. C’è una continuità femminile che ritorna anche nelle titolazioni delle chiese, a cominciare da Santa Sofia. Non solo. La “femminilità” di questa città fu captata anche dai conquistatori. In alcune cronache incluse nel Romanzo di Costantinopoli si parla quasi in termini “pornografici” della penetrazione in città. Nella prefazione a Figure bizantine di Charles Diehl lei ricorda che opere letterarie e teatrali come Teodora contribuirono a creare il mito di un Oriente seducente ma pericoloso. Cocteau definiva Costantinopoli «la decrepita mano ingioiellata che si protende verso l’Europa». Lo stereotipo della decadenza cominciò già a definire Bisanzio e continuò nella definizione di Costantinopoli. Vista come minaccia ipnotica seduttiva, quasi vampiresca. Ma va anche detto che molti scrittori, soprattutto nell’Ottocento, che parlavano di questa malìa negativa, scrissero le loro cose migliori proprio a Costantinopoli o grazie a un’ispirazione che veniva loro da lì. Vale per Flaubert per Potocki, per Byron e molti altri. Per cui sì, lo stereotipo della seduttrice pericolosa è la creazione di uno stereotipo orientale, di una Medea, di una sirena, a lungo operante, ma che ripaga gli scrittori, trasformandosi a posteriori in musa. Proprio parlando di sirene è intervenuta di recente su Radio 3, ne nascerà un libro? Il mio intervento si basava su un libro di Luigi Spina, Il mito delle sirene. Uno studio fantastico che ripercorre anche l’oltre vita simbolico e letterario della sirena. A questo non c’è da aggiungere altro. Mi interessava il fatto che questo mito ci lascia intendere che già i greci avevano una visione alterata dell’immagine femminile. La paura della donna c’era già in Omero. Da sempre l’immagine femminile si sdoppia in un’immagine materna (la Madonna) e un’immagine mortifera, che in realtà è l’altra faccia della madre. In una battuta, ecco perché molto spesso gli uomini hanno una moglie e un’amante. C’è una scissione nella ricerca, nell’attrazione per l’immagine femminile. E questo è un aspetto che obiettivamente manca nella donna. I miti antichi ci danno conto di questa inquietudine per quel volto, la faccia scura della Madonna, simbolo lunare. La donna sarebbe questo essere che ti fa perdere i confini dell’io, trascinandoti in una naturalità, in un mondo di puro istinto, di pura passione. Un mondo di smarrimento, di ebbrezza. Le figure del mito non a caso sono tutte legate a elementi dionisiaci, perfino alle droghe, il nepente di Elena, il nome stesso di Medea si lega alla sua capacità di preparare droghe. Similmente per Medusa. Oggi i greci per dire sirena usano Gorgone. Quello delle sirene è un canto, legato a una dimensione dionisiaca che fa uscire l’uomo dalla coscienza, questa è la sua grande forza. Da qui la paura della passione che scinde l’animo del maschio, che sia Odisseo o che sia quello di oggi quello sul monofisismo e che sono sullo sfondo della vicenda di Ipazia. La quantità di interventi su Ipazia (anche sul web) testimoniano comunque un interesse vivo e diffuso. Perché si accende ora? Ci troviamo in un momento storico in cui la laicità ritorna di attualità e ha bisogno di attingere a qualche precedente. Abbiamo attraversato periodi di grandi fedi secolari, di grandi fedi e ideologie pervasive che a un certo punto sono venute a crollare. Al contempo abbiamo assistito a un rigurgito teocon, alla salita al soglio pontificio dell’ala più conservatrice della Chiesa cattolica. C’è da notare che l’ayatollah Khomeini e Woytila sono ascesi al vertice in contemporanea. Poi il pontificato di Ratzinger ha portato un alteriore irrigidimento fondamentalista. Insomma appare chiaro quanto sia urgente un dibattito sulla laicità. E spero che il mio libro possa contribuirvi. Al centro non a caso c’è il tema del rapporto fra Stato e Chiesa. Nella Alessandria del IV secolo c’era un’in- fluenza politica diretta sullo Stato da parte di Cirillo che fu fortemente contrastata nel mondo bizantino. Un’in- filtrazione che divenne una bandiera dell’infiltrazione papista cattolica nello Stato. Questo ci spiega perché la vicenda di Ipazia sia stata così censurata in Occidente. Alessandria d’Egitto era una città multietnica e multiculturale. E ancor più lo è stata Costantinopoli lungo i secoli. Da qui il fascino di Istanbul? Qui ci riallacciamo a quanto dicevo prima: Costantinopoli fu lo specchio della civiltà di cui era capitale. Per più di undici secoli, sommando quelli bizantini a quelli ottomani. Gli ottomani che conquistarono Costantinopoli nel 1453 si posero come continuatori di quella civiltà statale che era stata dell’impero multietnico bizantino. Una convivenza, non solo di etnie ma di culti era alla base dell’esistenza stessa di questa superpotenza del Medioevo che lo sarà anche nell’Età moderna. La forza bizantina, e poi ottomana, stava nella capacità di mescolare, di amalgamare tradizioni e culture o, nel caso, di tollerarle. Quello ottomano era uno stato laico con una distinzione netta fra potere spirituale e temporale. Già al momento della conquista, Maometto II non impose l’islam come religione di Stato ma nominò un patriarca ortodosso, cosa che non fecero i crociati che, invece, presa Costantinopoli, sostituirono al patriarca bizantino ortodosso un loro patriarca latino. Il fascino di questa città nasce dal suo incarnare un ideale di fusione e di tolleranza, come capacità inclusiva. Per questo il passato bizantino ha molto da dare a un’epoca come la nostra di scontro di civiltà. Per undici secoli questo scontro è stato evitato proprio lì, sull’istmo. Il volto di Istanbul appare, ieri come oggi, molto stratifico. È la città che più di ogni altra al mondo mantiene i simboli delle civiltà sconfitte. E proprio questo è il filo di Arianna che abbiamo seguito con Baccini nel preparare questa antologia. L’architettura e la pittura a Istanbul condensano questa sua realtà storica. Curiosamente molti scrittori e viaggiatori parlavano di Costantinopoli al femminile. Perché? Istanbul è la città femminile per eccellenza, fin dall’età pagana. Già prima di Teodosio era consacrata ad Aretmide. La falce lunare che Per più di undici secoli Costantinopoli ha avuto la capacità di far convivere e amalgamare culture fra loro molto diverse della donna orientale destinato ad avere lungo successo: la cortigiana egizia di Flaubert non parla mai di sé, non esprime le proprie emozioni, la propria sensibilità o la propria storia. «È lo scrittore francese a farlo per lei», faceva notare Said. Parallelamente, come ora ricostruisce Emmanuelle Gaillard nel volume L’orientalismo e le arti (Electa), in pittura e in architettura si sviluppava nell’Europa dell’Ottocento uno stile di gran moda. Sul piano alto della ricerca, intanto, grandi artisti come Delacroix e Matisse hanno contribuito ad allargare il nostro sguardo oltre un asfittico eurocentrismo, regalandoci immagini sontuose di Babilonia, di Algeri, di Casablanca. Ma al tempo stesso con le loro splendide odalische hanno contribuito a fissare nel nostro immaginario fantasie di un Vicino Oriente femminile della donna orientale destinato ad avere lungo successo: la cortigiana egizia di Flaubert non parla mai di sé, non esprime le proprie emozioni, la propria sensibilità o la propria storia. «È lo scrittore francese a farlo per lei», faceva notare Said. Parallelamente, come ora ricostruisce Emmanuelle Gaillard nel volume L’orientalismo e le arti (Electa), in pittura e in architettura si sviluppava nell’Europa dell’Ottocento uno stile di gran moda. Sul piano alto della ricerca, intanto, grandi artisti come Delacroix e Matisse hanno contribuito ad allargare il nostro sguardo oltre un asfittico eurocentrismo, regalandoci immagini sontuose di Babilonia, di Algeri, di Casablanca. Ma al tempo stesso con le loro splendide odalische hanno contribuito a fissare nel nostro immaginario fantasie di un Vicino Oriente femminile ma del tutto inerte. In questo suo nuovo lavoro, Gaillard analizza queste rappresentazioni riavvolgendo il nastro della storia fino al XVII secolo, quando comparvero i primi vagheggiamenti di un Oriente, terra lontana, luogo opulento, mitico, d’evasione.