Kadarè e il Kosovo
Lettere da Bisanzio
Il “canto funebre” è una forma che riprende quella del threnos politico, fiorita a Bisanzio fin dalle prime invasioni mongole e turchesche. Esiste, nella letteratura bizantina del Trecento, un bellissimo Canto funebre per il Kosovo, che attende una moderna edizione e traduzione. Quando Ismaìl Kadaré ha composto i suoi Tre canti funebri per il Kosovo, ha ripreso la forma del threnos, ma seguendo gli usi del secolo in cui scrive l'ha legittimamente trasformata in quella di racconto in prosa. Usciti in albanese (Tri Kenge zie per Kosoven), nel 1998 pubblicati con poco clamore in francese da Fayard, i tre racconti, con l'urgere dell'attualità, sono stati oggi tradotti in italiano da Longanesi (pp. 112, £ 18.000).
«La strana decisione di lasciare il sangue e le viscere del sultano nella terra cristiana del Kosovo e di fare inumare il resto del corpo nella capitale ottomana ha un senso preciso. Presso le antiche popolazioni balcaniche tutto ciò che concerne il sangue è, come si sa, eterno, imperituro, segnato dal marchio del fato. Nel corso di mezzo secolo di contatti con i popoli dei Balcani, i turchi si sono, a quanto pare, appropriati di alcuni elementi di questa simbologia e hanno voluto, bagnando questa pianura con il sangue del loro sovrano, al tempo stesso benedirla e maledirla, imprimere a lei, e per suo tramite alla loro stessa furia conquistatrice, un senso, un destino, o, come si direbbe oggi, un “codice”». Il più bello dei tre racconti di Kadarè si conclude con queste parole profetiche, che s'immaginano scritte «dall'Inviato Segreto di Sua Santità nella pianura del Kosovo» alla fine della primavera del 1389, dopo la terribile battaglia in cui il principe serbo Lazzaro, a capo di una coalizione di resistenti cristiano-illirici (bosniaci, rumeni, albanesi, croati), fu sconfitto dal sultano turco Murad, ma questi trovò la morte per congiura.
«E però i rapsodi, intonavano gli antichi canti, come al solito, senza cambiare nulla. Il principe serbo Lazzaro e il conte albanese Giorgio Balsa ridevano a gola spiegata sentendo il guslar serbo recitare: “In piedi, serbi, gli albanesi ci tolgono il Kosovo!”, e i bardi albanesi, dal canto loro, intonare: “In piedi, albanesi, lo slavo ci ruba il Kosovo!”». Il 28 giugno 1989, data del seicentesimo anniversario della “battaglia del campo dei corvi”, il dirigente sebo Milosevic lanciò un appello al massacro nel Kosovo, questa volta contro albanesi
Il fatto che già da tempo Kadaré abbia scritto questi apologhi, per additare al mondo la situazione politica, e si vorrebbe dire psicologica, delle etnie balcaniche, e di quella albanese in particolare, e soprattutto della sua minoranza fiorita appunto dal sangue depositato allora nel Kosovo, conferma l'esistenza di uno stato di guerra annunciata fin dalla caduta del regime di Enver Ozha, ma da pochi percepito o divulgato al di fuori dell'opinione pubblica albanese, in patria o in esilio.
Nelle antiche case ottomane dell'entroterra albanese, sui grandi camini intonacati nei forti colori balcanici, le contadine ancora hanno appesa la foto di Stalin — accanto, naturalmente, a quella di Ozha. Come Kadaré tranquillamente dichiara, non è la crudeltà delle guerre, antiche o recenti o presenti, che vuole denunciare, ma quella connaturata al suo stesso popolo: «Gli albanesi hanno sempre avuto il gusto di uccidere o di farsi uccidere», diceva il suo Generale dell'armata morta. Nonostante questa constatazione sia forse anche cupamente autobiografica, gli è valsa da tempo, fin dall'inizio quanto meno del suo esilio a Parigi, l'ostilità del suo popolo e l'accusa di ambiguità politica: di una tendenziale simpatia, sotto la facciata del dissenso, per il totalitarismo di Ozha, nato come lui nella “città di pietra” di Girocastro, alla quale si intitola il più bello dei suoi romanzi, e forse effettivamente legato all’intellettuale dissidente da quel peculiare e sadico “affetto del dittatore”, che ebbe ad esempio Stalin per Pasternak.