Silvia Ronchey

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Attualità e rubriche

Venezia, o della modernità

Lettere da Bisanzio

07/01/1999 Silvia Ronchey
Avvenire

Quella di Venezia e Bisanzio è la storia di un’antitesi rovi­nosa, che stringe nel nodo di pochi secoli, alla fine del me­dioevo, gli elementi di un con­flitto etico oltreché storico, quasi di un duello allegorico.
Se i politologi si ponessero a discuterne, dati, e carte alla mano (com'è ora possibile grazie al libro di Donald Nicol, mas­simo studioso inglese del tardo impero bizan­tino, appena ristampato da Rusconi), chi si schiererebbe dalla parte di Venezia e chi da quella di Bisanzio? La presa di posizione sa­rebbe rivelatrice: l'oligarchia liberale che con­traddice l'autocrazia di diritto divino; il potere del mercato che compete con quello dell’i­deologia.
Nel conflitto con Bizanzio, Venezia incarna per molti aspetti la modernità. In antitesi al­l’immobilismo fideista dello stato orientale, l’attivismo dei dogi si attiene a una visione stret­tamente economica e pragmatica dei fatti po­litici. Pluralista nelle istituzioni, almeno rispetto alle monarchie medievali europee, la re­pubblica veneziana combina impresa di stato e iniziativa privata guadagnando ne! Levan­te una ricchezza incommensurabile al numero degli abitanti. E come già nell’antica democrazia mercantile di Atene, la circostanza porta a un’al­ta valutazione dell'individuo: in tempi e luoghi in cui le vite umane si sterminano in massa, e anche a un profirogenito può accadere di esse­re commerciato in fasce, ogni citta­dino di Venezia vale migliaia di du­cati, come dimostrano i riscatti pa­gati dalla Serenissima ai sultani turchi. Nella loro espansione i mercanti vene­ziani nono sono guidati da un’etica missiona­ria o scientifica, da un intento civilizzatore o da un’ideologia; in quel modo di viaggiare i moderni si specchiano perché non è sorretto, come a Bisanzio, da una visione universale a priori, mentre la geografia mistica di Cosma Indicopleusta disegna il mondo a forma di ta­bernacolo. i mercanti veneziani lo esplorano con lo sguardo disincantato e em­pirico di Marco Polo.
In antitesi alla modernità di Ve­nezia, Bisanzio è il simbolo della tradizione ancestrale, dell’antica vi­sione del mondo, della cultura classica. L'incendio turco del 1453 vide perire, insieme a Costantinopli e alle sue biblioteche, le ultime tracce di vita della classicità, da allora in poi imbalsamata e esposta allo studio dei dotti della rinascenza occidentale. Ma per mille anni a Bisanzio i classici erano rimasti vivi e presenti nel vasto circuito della pubblica istruzione imperiale: non in piccoli circoli, ma nel quotidiano esercizio del linguaggio e della scrittura di una grande e plurietnica classe no­tabile.
Contrariamente a quanto si è voluto crede­re nell'occidente latino, il moralismo religioso a Bisanzio, sia nell’espressio­ne elitaria e dotta, sia in quel­la popolare e monastica, era molto più forte che nel cattoli­cesimo quattrocentesco. Bi­sanzio fu perduta quando smarrì l’identità ortodossa, rinnegata nel concilio di Fi­renze, e all’origine del conflitto con Venezia vi era anche un vero e proprio rigetto culturale: il sostanziale disprezzo, da parte dei bizanti­ni, delle premesse etiche della mercatura.
La speculazione del primo capitalismo quattrocentesco strappò dalle rive del mare la de­crepita civiltà greca di Bisanzio come nel Faust II al vecchia casa di Filemone e Bauci. C’è mol­to di sinistro nei resti dell’impero commercia­le che i veneziani, i Capitani del Golfo, i Duchi dell’Arcipelago, i Podestà di nauplia, i gover­natori di Tino e Micono lasciarono alla poste­rità: tetre fortezze, porti fortificati e prigioni con lo stemma del Leone di San Marco. Se nell'«infame e satanico spirito del commercio» Baudelaire vide la prima maledizione della modernità, lungo le pagine delle storie e delle cronache greche, attinte di prima mano da Donald Nicol, Venezia ricorda l'Alëna Ivanovna, che sarebbe stata assassinata da Raskol'nikov.


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