Gli orrori di Tamerlano
Lettere da Bisanzio
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«Tamerlano corse per la regione / e saccheggiò, brutalizzò, uccise. / leromonaci e monaci in specie / gli uni mise allo spiedo e fece arrosto / mentre le teste dei frati cadevano / di quà, di là. / Altri come supplizio ricevettero / in gola braci ardenti / e sopra il petto olio bollente, / altri i polsi legati alla schiena / e il capo tra le gambe / di ingurgitare vetro sopportarono / e di ricevere in faccia pece ardente. / Ma in specie profanarono le suore / le presero per vergini baccanti [Pindaro, Pitiche, 10], / in ambedue i modi violentandole: / come si fa alle donne e come agli uomini, / monache sessantenni ed anche più».
Il frammento poetico ritrovato in un codice della Biblioteca Nazionale di Parigi, composto di 97 versi politici (adattamento accentuativo del trimetro giambico della tragedia greca), datato all’anno 1443 e vergato «in pessima calligrafia da un copista negligentissimo» (pessime scripto a scriba negligentissimo) secondo l’indicazione di G. Wagner, il suo primo editore, narra il passaggio di Tamerlano in Anatolia (Timur e-lang, «Timur lo Zoppo»). Fu una tappa determinante nell’ultimo secolo di Bisanzio. Annientando nel 1402 sul campo di Angora (Ankara) la potenza del turco Beyazid, l’ondata mongola ritardò di mezzo secolo la caduta dell’impero. «Un gigante di nome Timur persiano di Persia alla testa di eserciti» fu mandato dalla Provvidenza del Signore misericordioso alla sua vigna Costantinopoli, cinta d’assedio da Beyazit (in greco Pagiazitis), protervo figlio dell'Agar, durante il regno di Manuele II Paleologo. La dilazione costò tuttavia molto cara ai suoi abitanti. «La città risuonava di pianto / e per le strade, insieme casa e tomba, stavano sparsi i morti per fame».
Beyazit aveva formulato «minacce enormi, scandalose»: nel 1443, dieci anni prima della conquista di Mehemet II, che le avvererà alla lettera, appaiono all’autore assolutamente incredibili, iperboliche: «Quando avrò conquistato la Città / demolirò le Mura di Terra, / salirò sulla cupola fino alla bandiera: / Santa Sofia diverrà una moschea». / «Ma Tamerlano lo acchiappa per la barba, /gli leva il fiato, lo manda dai suoi avi».
Il Gigante Persiano è un ben scomodo inviato della Provvidenza. L’autore dei versi, probabilmente testimone oculare di quanto narra, dà un elenco delle violenze inferte dai mongoli agli abitanti della provincia costantinopolitana. È un elenco di sinistra attualità: «Bambini sotto l’anno, sui tre mesi, / strapparono alle madri, fracassarono in terra; / e con le nude mani abbrancarono / le gravide che avevano nel ventre / un embrione, perché lo abortissero / e per picchiarle poi selvaggiamente / per farle poi correre e scappare; / e gli uomini che le volevano seguire, / formando con loro una sola carne / secondo il verbo divino della bibbia, [Genesi 2,24] / senza pietà li decapitavano. / E inventarono un’altra orribile violenza: / stupravano le mogli davanti ai mariti, / non solo dei laici, ma anche dei preti, / e i figli violentavano, maschi e femmine, / mentre i padri giacevano, mani e piedi legati, / e con gli occhi vedevano tanta sventura / che ad alcuni, per averla più volte subita, / il cuore si fermò, e la vita». La lista delle atrocità continua, finché la scrittura non si interrompe.