Silvia Ronchey

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Attualità e rubriche

Da Plutarco agli animalisti

Lettere da Bisanzio

03/12/1998 Silvia Ronchey

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Avvenire

Diogene di Tarso decise di de­dicarsi alla filosofia osservan­do un topo: il topo era autosuf­ficiente, lui no, racconta Dioge­ne Laerzio. L’amore per gli animali è pagano in generale e greco classico in particolare: la più organica enunciazione teo­rica della dottrina animalista si trova negli Opuscula di Plu­tarco. Quanto al vegetariani­smo come stile di vita e come ideologia dettata da una visione razionalistica e coerente all’estremo del mondo, è soprattutto legato al manicheismo, la gran­de corrente del pensiero orien­tale tardoantico e bizantino coeva e contagiarne il cristianesi­mo e i suoi filosofi, a partire dal giovane Agostino. Il divieto di mangiare carne, uno dei Tre Si­gilli manichei, dipende dal fat­to che i cibi animali sono morti, e perciò pura materia abban­donata dalla luce II manicheo d’altronde se si asterrà dal sopprimere la vita, si guarderà anche, malthusianamente, dal propagarla nel mondo con la procreazione.
Sempre più spesso nel Nove­cento l’equiparazione del figlio dell’uomo al resto del vivente viene assorbita nell’usus mentale del cristianesimo postconcilia­re. E, come ha scritto Pindaro, «l’uso su tutto è sovrano». Ma in realtà, qualunque cosa si vo­glia credere, la religione cri­stiana è per sua natura piena­mente antropocentrica. La pos­sibilità di una redenzione co­smica, che candida cioè non solo l’essere umano ma anche gli animali, le piante o perfino mi­nerali alla gloria eterna, è confinata a un unico, misterioso e discusso, esilissimo nucleo dogma­tico, un versetto della Lettera ai Romani di Paolo (8,19-22): «Il creato stesso (ktisis) nutre la spe­ranza di essere libe­rato dalla schiavitù delta corruzione materiale».
In un recente saggio (L’uomo o il creato? Ktisis in San Paolo, Edb) un vescovo italiano, Al­berto Giglioli, ha sostenuto, filologicamente a ragione, che ktisis nel greco della Koiné e più oltre, in quello bi­zantino dei Padri, non vale «creato» ma «creatura»: che Paolo, una volta di più non si interessa affatto al cosmo non umano, ma a quel microcosmo divinizzato o divinizzabile che è l’uomo, fulcro delta sua dottrina e per­no del prefigurato riscatto cri­stiano. Autorità ecclesiastiche eminenti, teologi e biblisti si sono dichiarati d’accordo con la lettura strettamente antropologica del brano paolino, e anche in sede propriamente ermeneutica la traduzione di Giglioli è stata ac­colta nella Nueva Biblia Española.
Il parziale avallo dell’esege­si, invece, cosmologica di Ro­mani 8,19-22 durante il Concilio Vaticano II non implicava forse - si domanda Giglioli - il rischio di una «strisciante divinizzazione della materia», di al­linearsi con «la cultura oggi pre­valente, che sfuma o cancella il confine tra l’uomo e gli anima­li», che «costituisce un piano in­clinato verso il panteismo» e «fa correre il rischio di tornare al­la religiosità cosmica del paga­nesimo?» (Avvenire, 26 novem­bre 1998). Segnalata dal dubbio di Agostino, respinta dalla Summa di Tommaso, seguita, non a caso, solo a Bisanzio, da quei diretti eredi delta tradizio­ne neoplatonica che furono i Pa­dri greci del IV secolo, in questa fine di XX secolo l'idea di un ri­scatto del vivente non umano appare dunque scartata dalla teologia cristiana d’occidente, anche se in antitesi a quella che riconosce come «cultura oggi prevalente» e in opposizione sia alla filosofia greca antica, sia al pensiero moderno da Schopenauer in poi. Onestamente to­mistico e profondamente radi­cato appare così anche il rifiuto di ogni sincretismo rispetto al pensiero orientale (e a quanto di oriente penetrò nella spiritua­lità bizantina e poi russa), no­nostante tutta la simpatia per i Veda o gli Avesta, per la predi­cazione di Tirthankara o di Buddha, espressa nell’enciclica Fides et ratio.


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