Vernant, mito greco e utopia rossa
Intervista con il grande studioso che pubblica il suo bilancio intellettuale
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A 84 anni Jean-Pierre Vernant, il più grande studioso vivente della cultura greca, fa un bilancio intellettuale: «Nella mia esistenza la ricerca sul mondo antico e l'impegno politico si sono intrecciati in modo inestricabile». Allievo di Meyerson e Gernet, molto vicino a Lévi-Strauss, professore al Collège de France, Vernant ha creato un nuovo modo di comprendere l'antichità in cui l'analisi della poesia o lo studio del diritto si fondono con l'antropologia e con la psicologia storica. Mentre parla aspira lentamente una sigaretta. Il fumo sale controluce tra gli scaffali della stanza inconfondibilmente russa: come Lida, la bellissima moglie, scomparsa poco tempo fa. Lui mostra una sua foto giovanile, i volumi dei racconti di Cechov, le molte tracce di un mondo sovietico inatteso nella vecchia casa di banlieue a Sèvres, che resiste assediata dai nuovi palazzi, col suo piccolo orto e il cortile di pietra. Sono le tracce di una vita in cui il comunismo è entrato come esperienza personale e cruda, oltre che come utopia e militanza. Tra mito e politica, un libro che in Italia uscirà nella seconda metà di maggio dall'editore Cortina, ne ripercorre il sofferto itinerario. «Al mio arrivo al Quartiere Latino», ricorda, «avevo diciott'anni, preparavo la laurea in filosofia, e intanto attorno a me spadroneggiavano le "leghe", la forma francese del fascismo. Nel clima di allora l'impegno intellettuale e quello politico si saldavano in un unico blocco».
Davvero non c'è mai stato conflitto tra le due identità?
«Col passare degli anni c'è stato moltissimo, e oggi lo constato con obiettività, come se si trattasse dell'esistenza di un altro. Al termine di quest'esistenza, con l'età che ho, rifletto e m'interrogo sulle contraddizioni fra quei due tipi di impegno: sui loro conflitti, o perlomeno sulle loro tensioni interne. Come ho potuto, essendo uno storico, ed esercitando quindi nella ricerca sul passato il mio spirito critico, avere verso il futuro e sul piano politico l'atteggiamento di un credente?».
«Credente» in che cosa?
«Che l'avvenire fosse segnato, quasi provvidenzialmente. Che fosse prossima la soluzione dei grandi problemi dell'umanità: sociali, economici, politici, razziali. E che questa mia fosse una visione scientifica, positiva e ragionevole. Oggi so bene quante zone d'ombra ci fossero, i problemi che rimuovevo perché mi disturbavano e mi irritavano. Non volevo vederli: questo è l'atteggiamento dei credenti».
Ma nei suoi scritti sul mondo antico lei ha sempre avuto, rispetto al marxismo, uno spirito fortemente critico. Lei ha creato un metodo d'indagine nuovo, liberatorio per chi voleva studiare il passato.
«Mancava una ricetta e io l'ho trovata. Ma ecco, appunto, la contraddizione. Pierre Vidal-Nacquet e gli altri miei collaboratori non hanno mai smesso di dirmi che sono sempre stato "un comunista critico". Nel mio lavoro credo di avere mostrato una libertà di pensiero totalmente contraria al marxismo rigido, fisso come una bibbia. Ho sempre saputo che le cose sono contraddittorie, complicate, che nessuna soluzione può essere trovata a priori e che ogni soluzione unilaterale è necessariamente falsa: se non altro perché ogni affermazione contiene sempre, in qualche modo, un legame con l'affermazione contraria. Nel titolo di Tra mito e politica la parola più importante è "tra". Sono diventato un eracliteo. E' la tensione degli opposti che fa esistere e vivere il mondo».
Quella che negli studi sulla tragedia definisce «ambiguità»?
«Senza l'ambiguità non si può spiegare la tragedia greca, né la scultura greca, né la religione greca, né la filosofia, la medicina, l'astronomia. Vede, ad esempio, nella mia visione critica, disincantata, smitizzata del mondo, l'individuo umano ha un valore fondamentale e perciò, se gli esseri sono insostituibili, la morte è qualcosa di mostruoso, terrificante e assoluto. Gli uomini vengono e se ne vanno. Quelli che ami spariscono. Questo è ora il mio stato d'animo. Ma nello stesso tempo io so che se non ci fosse la morte, se non ci fosse questa linea d'orizzonte dove alla fine tutto sparisce, la vita non avrebbe alcun senso».
Come sostiene Lévi-Strauss?
«Come direbbe Lévi-Strauss, l'unica spinta ad agire sta nel fatto che niente è scritto in anticipo e che tutto è divenire. E' per questo che nella storia gli uomini sbagliano, compiono azioni che hanno un effetto completamente diverso da quello previsto. E' per questo che la vita è una tragedia ed è proprio per questo che viverla vale la pena. Ciò che dà valore alla vita è precisamente la morte. Se qualcosa esiste, è nella tensione con l'assoluto indistinto che quel qualcosa ha di fron te, con la Gorgone del mito greco».
Dall'ortodossia marxista lo studio del passato era più o meno esplicitamente considerato reazionario. Cosa l'ha spinta a studiare la Grecia?
«Una specie d'incantamento provato da ragazzino nel Sud della Francia, in Provenza, in viaggio con mio fratello e i miei cugini, nel '28, o nel '30. Ero stato svegliato verso le sette da un suono di campanelli. Ho aperto le persiane: un gregge di montoni con il pastore attraversava il villaggio. Ma che cosa avrò visto veramente? I montoni, il pastore, e poi il cielo, il suo colore, la sua luminosità, i tratti dei dipinti romani, e mi sono detto: mio dio, cos'è questo? E' l'incantamento, è la felicità. In seguito, nel '35, ho navigato sul ponte del Cairos City, un cargo che usavano anche Sartre e Simone de Beauvoir. Costava pochissimo ma non preparavano da mangiare, avevamo casse di pomodori e pane. Siamo sbarcati al Pireo, abbiamo percorso la Grecia a piedi, su viottoli sterrati: da Atene a Delfi, e poi nel Peloponneso. Appena ci vedevano arrampicare su per le mulattiere gli abitanti dei villaggi scoscesi suonavano le campane. Arrivavamo in piazza, nei caffè, e tutti erano riuniti e si accapigliavano per darci i loro letti. La venuta dello straniero la vedevano come un omaggio, un dono che li arricchiva, che alzava il loro prestigio e insieme mostrava che le loro case erano aperte all'esterno. Facevo il confronto con le minacce dei fascisti del Quartiere Latino: "A bas les métèques! Fuori lo straniero!". Il contrasto era con la verità del presente. Occorreva invece cercare la verità precisamente lì, scrutando la storia di quegli uomini e come mai erano così».
Da dove ha cominciato?
«Nel '37 dovevo laurearmi in filosofia ed era necessaria una prova di greco. Quando ho letto Platone, il Simposio, ho provato di nuovo quella felicità. Non era solo filosofia: era conversazione, era teatro, era tutto quello che si può volere. Dopo la laurea sono partito militare di leva e la ferma nell'esercito è stata molto lunga, data la situazione e poi la guerra. Al momento della sconfitta, ho fatto la Resistenza. Sono tornato alla ricerca solo dopo dieci armi, nel '48. Il mio maestro Meyerson mi disse: "Niente storie, Jean-Pierre, la ricerca è come entrare in convento". Ero di nuovo iscritto al Partito Comunista ed era il momento di Zdanov, tutto il contrario di ciò che pensavo. Meyerson era d'accordo con me: "Zdanov non vale niente, non esiste, passerà". E' qui che sbagliavamo. Credevamo fosse mia cosa passeggera, un "errore umano", mentre era la verità del tempo, dello stalinismo, dell'Urss e del comunismo».
Però nel capitolo del suo libro intitolato «Il buco nero del comunismo» lei parla della sua lunga opposizione interna al Partito.
«Certo. Fin da gli anni '32-'35 ero fautore dell'unità d'azione con i socialisti, quando invece il Partito aveva una politica assolutamente settaria: i socialisti erano il nemico principale, non i fascisti che ti spaccavano la testa, non Mussolini in Italia, non la Germania che diventava hitleriana e poi Franco. Il mio disaccordo è stato ancora più completo al momento del patto russo-tedesco, quando il partito comunista francese riteneva si dovesse firmare la resa perché quella in corso era una guerra inter-imperialista, di cui gli Inglesi erano responsabili. Io, in quei giorni, incollavo manifesti con su scritto: "Viva l'Inghilterra perché viva la Francia"».
E poi, dopo la guerra?
«Dopo c'è stato un periodo in cui non solo ero un comunista intellettualmente critico, ma un comunista organizzativamente critico. Ero una delle cosiddette "termiti". Si può dire che dal '55 in poi la maggior parte della mia attività politica sia consistita nel lottare contro la direzione del mio partito».
Lei si è definito, in quest'opposizione al rigore del Pcf, un comunista «italiano». In Italia l'alleanza tra comunisti e Chiesa cattolica ha dato vita al catto-comunismo. Avete avuto qualcosa di simile in Francia?
«L'unico esempio che mi viene in mente è quel tremendo Garaudy, una specie di catto-comunista, ma insieme anche musulmano, verde, femminista, un camaleonte. No, in Francia abbiamo altre tradizioni. Mio padre e mio nonno, intellettuali laici, dreyfusardi, sostenitori della scuola pubblica e della separazione tra Chiesa e Stato, con il loro giornale repubblicano Le Brillard hanno combattuto contro L'Abri, giornale cattolico, monarchico e conservatore. Ora i campi interi della vita sociale, collettiva, non appartengono più alla Chiesa. In Francia la maggioranza è cattolica, ma in un modo privato, che non influenza le lotte politiche e sociali. La politica è veramente laica. Una combinazione come la vostra non potrebbe presentarsi».
In Italia l'avvicinamento al cattolicesimo sembra riguardare gli ex marxisti, gli stessi che avevano considerato la religione «oppio dei popoli». Come mai?
«Vede, nel dopoguerra gli intellettuali in quanto tali considerarono l'impegno una necessità. E il marxismo e il comunismo erano l'orizzonte invalicabile del secolo. A volte si accreditava pienamente l'Unione Sovietica, a volte si poteva anche prendere qualche distanza, ma così era allora, malgrado tutto. Ora, è finita. Evidentemente gli intellettuali non hanno più una poltrona dove collocare il didietro. Perché si riavvicinano ai cattolici? Perché, nella misura in cui non credono più nel marxismo, che cosa resta? Un bisogno di giustizia, un sentimento di fraternità. E in Occidente troviamo - qualche volta in antitesi, qualche volta in continuità con la civiltà greca - una concezione per cui, almeno in teoria, tutti gli uomini sono fratelli e a contare sono l'amore, la carità, l'apertura verso gli altri. Visto che gli intellettuali non hanno più in prospettiva un oggetto di lotta preciso, allora per forza di cose si lasciano cullare dolcemente, per cadere nelle braccia della più elementare tradizione cristiana. Di qui il ritorno al conformismo».