Quell'impresa non nacque da ambizioni imperialiste
Intervista a Luciano Canfora
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Mesopotamia e Babilonia, Sogdiana e Bactriana: le località che hanno interessato la conquista di Alessandro sono le stesse – Iran, Iraq, Pakistan, Afghanistan – dove oggi l’impero americano di Bush cerca di “esportare la libertà”, per riprendere il titolo dell’ultimo libro di Luciano Canfora, appena uscito (Mondadori, 104 pp. 12 euro) e già diventato un best seller. “E’ l’arco della crisi, come si diceva una volta. Certi luoghi geografici”, spiega Canfora, ”sono più forti di altri, sono luoghi critici nel cammino della storia umana: vi ricorrono determinati comportamenti, determinati esiti”.
Quali?
Vede, quell’ampio spazio che si espande dalle coste dell’Egeo fino all’Afghanistan, e anche più in là per Alessandro, si può attraversare secondo una doppia direttrice geografica e soprattutto in una doppia direzione storica. Il primo vettore di storia, in questo che potremmo chiamare, come si diceva una volta, “l’arco della crisi”, fu quella spinta originaria verso l’Egeo che partendo dal cuore della Perside creò l’impero persiano: una spinta da est verso ovest, causata dal premere di popolazioni mongole, come quasi tutte le migrazioni di popoli.
Ma Alessandro sconfisse l’impero persiano avanzando secondo una direttrice opposta.
Alessandro, nel seguire per la prima volta un percorso da ovest verso est, fu anzitutto debitore dell’idea di suo padre, Filippo: un’idea non nata certo dal nulla, ma da ciò di cui il sovente troppo poco apprezzato Senofonte era stato testimone, e cioè la possibilità di entrare, come lui fece, fin nel cuore del territorio persiano senza colpo ferire. Si era capito già nel 401 che l’onnipotente impero, che era stato il regista della politica greca, che ne aveva avuto la chiave, era in realtà fragilissimo. Mettere in discussione la sopravvivenza di quest’entità, che per i greci era stata eterna, era ciò che Filippo stava preparando al momento della sua morte.
Quale fu allora il ruolo di Alessandro?
Anzitutto porre in atto il progetto paterno, dimostrando una maestria irraggiungibile, che ancora oggi non sappiamo dove abbia imparato, nel solcare l’”arco della crisi” nella direzione inversa a quella persiana. Ma, dopo il crollo dell’impero, Alessandro scoprì la possibilità di un “oltre”. La conquista di Alessandro non nacque da una volontà di espansione, ma dalla scoperta della possibilità di ingrandire la civiltà greco-iranica - che era indubbiamente un’unica civiltà - in uno spazio molto più grande. Fu così che anche dopo la sua morte, e nonostante lo spaccarsi dell’impero persiano, quell’area diventò omogenea e continuò a funzionare come tale, tra alleanze, conflitti e traversie, ma sempre all’interno di una fusione di civiltà ormai compiuta.
Come dimostrano gli esemplari esposti nella splendida mostra di Torino.
Che provengono infatti da una cultura sincretistica già esaltata in quanto tale da Droysen, che vide l’arte indiana come gigantesca arte ellenistica, come “ellenismo esasperato”. Ora, se in quest’arte, secondo l’intuizione di Droysen, il modello greco era dominante, e se sul piano culturale possiamo scorgere una sua espansione da ovest a est, dobbiamo anche dire che l’esportazione fu possibile perché nessun modello estraneo era stato esportato: l’unica forma di esportazione è comprensione dell’altro. La mescolanza etnica, la politica “eugenetica”, la strategia di imparentamento con l’aristocrazia orientale sono solo uno degli aspetti di quella fusione di civiltà che è propria della politica di Alessandro. Per questo Droysen continua il suo ragionamento dicendo che l’ultimo ellenismo è l’islam: perché gli arabi assorbirono civiltà, propiziarono la mescolanza. Il meccanismo è dunque in funzione, nelle zone di cui stiamo parlando, dal VI secolo avanti Cristo fino al VII dopo Cristo, se non anche oltre.
Dunque, nel grande disegno di Alessandro, non possiamo scorgere qualcosa di quello di Bush?
In Alessandro non c’è, ripeto, un grande disegno, ma una progressiva scoperta. La diversità fondamentale rispetto all’attuale progetto di dominio imperiale del mondo è che quello di Alessandro è il letto di un fiume che si è scavato da solo, in totale assenza della retorica dell’”esportazione” di uno stile di vita o di valori ideologici. Anzi, Alessandro era implorato “di non voler raggiungere i confini del mondo” ed era osteggiato politicamente dai greci che lo attorniavano (pensiamo alla Congiura dei Paggi, a Callistene) e dal suo stesso maestro Aristotele, che non si riconoscevano più in quella grecità diluita in uno spazio più grande. Solo due voci si staccano dal coro: quella del Bios di Plutarco, con la sua esaltazione dell’”abbeverarsi alla coppa dell’amore”, ossia della mescolanza dei popoli, e quella del XVIII libro di Diodoro. Ma sono voci minoritarie rispetto all’ideologia dominante, all’immagine che il mondo greco ha conservato della conquista di Alessandro come eccesso, come atto di hybris, quasi fosse una sfida contro gli dèi che tutelavano il modo di essere ellenico. Basta pensare a tutta la critica contro l’adozione della proskynesis,la profonda riverenza orientale, e contro tutte le altre forme di orientalizzazione esterna del potere.
Dunque, nessuna retorica dell’“esportazione della libertà”, come nel caso di Bush?
No. L’analogia che regge meglio alla critica, in parte almeno, è se mai tra l’azione dell’odierno impero americano e la pratica imperiale dell’impero romano. Ma non dobbiamo dimenticare che il disegno romano di penetrazione nell’“arco della crisi” fu di Crasso, e che fallì miseramente a Carre, in quell’Armenia meridionale che lambiva la Mesopotamia e che sta poco più a nord di Baghdad. Augusto, nella sua saggezza, si fece sì ridare le insegne di Crasso, ma fece un patto coi Parti. La provincia di Siria resterà l’ultima frontiera dell’impero romano. L’impero americano dovrebbe imparare da questo: se non si darà anche lui i limiti di Augusto, finirà per impantanarsi in una nuova Carre.