La solitudine che riempie una vita
Il cammino del monaco. Nei testi dei «padri» d’Occidente e d’Oriente la terapia dell’ascesi
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“La mia anima è una tomba, che io, cattivo monaco, / dall’eternità percorro e abito”, scriveva Baudelaire. Fuori il cielo era basso e pesante come un coperchio, il sonno era un grande buco di cui avere paura. Per questo genere ricorrente di sensazioni Baudelaire adottava una parola inglese, spleen. Il vero monaco invece, buono o cattivo che fosse, ne ha sempre usata un’altra, akedìa. “E’ un’atonia dell’anima, una sua perdita di tensione”. “E’ tedio e ansietà del cuore”. “E’ paralisi e impigrimento della mente”. “E’ un moto duraturo nel contempo di collera e di desiderio”. “E’ un sentimento vago, è guerra dichiarata contro l’esichìa, bufera nella salmodia, sonnolenza fuori tempo, sonno avvolgente, peso della follia, odio della cella, freno della costanza, ostacolo della meditazione, compagna della tristezza, orologio della fame”. “Appare ogni volta che si comincia qualcosa, e non c’è passione peggiore”.
Di questo spleen monastico, analizzato costantemente dalla letteratura ascetica lungo i secoli del suo cammino, tratta, fra i tanti altri argomenti, l’ultimo, inestimabile libro espresso dalla comunità monastica più intellettuale di oggi: quella di Bose. Nelle quasi mille pagine del Cammino del monaco, curato da Luigi d’Ayala Valva, con una penetrante prefazione di Enzo Bianchi e preziosi indici e apparati, sono scelti, tradotti dalle lingue originali e raccolti insieme per la prima volta i testi fondamentali dei grandi quanto spesso oscuri padri del monachesimo cristiano antico.
“D’oriente e d’occidente”, recita la fascetta. Ma non è un caso se, su più di cento autori, solo sei sono occidentali: Girolamo, Agostino, Sulpicio Severo, Cassiano, Benedetto, Gregorio Magno. E’ la riprova della supremazia dell’esempio di Bisanzio e del suo bacino d’irradiazione civile e culturale nell’esperienza spirituale monastica, del debito che il cristianesimo anche cattolico ha verso l’oriente greco e della bontà della scelta dei monaci di Bose di studiarlo e diffonderne la tradizione attivamente, nei fatti oltre che nei detti e negli scritti.
Monaco in greco significa, più o meno, “solo”. In un’epoca in cui gli uomini e le donne lo sono sempre di più, non solo materialmente ma anche e soprattutto interiormente, l’attualità delle malattie dell’anima monastica è evidente. Le antiche terapie escogitate dai padri bizantini cercano di combattere, o contenere, tutte le nevrosi di chi ha compreso la vanità del mondo, l’evanescenza del desiderio, la solitudine dell’io. Analizzano la depressione e la disperazione, l’ansia e l’insonnia, la vertigine e il panico, l’ossessività e l’anoressia. Propongono rimedi amorevoli, danno consigli comprensivi, ma non pretendono di eliminare il sintomo, né sempre lo considerano demoniaco, anzi, a volte, divino. Suggeriscono la fuga dal mondo (ana-choresis, letteralmente “ritirata”), l’ascesi (askesis, letteralmente “esercizio”), la frugalità, la manualità, l’impassibilità, la lettura, il canto, il silenzio e la dolcezza, la perserveranza nella mitezza, la contemplazione della bellezza. Prescrivono la rinuncia al possesso, l’amore spirituale, l’analisi di sé, l’ascolto, la vigilanza, l’ospitalità, il pianto, il riso, il perdono, la libertà, il lavoro.
A centinaia, a migliaia, a centinaia di migliaia, tra il quarto e l’undicesimo secolo — la raccolta si ferma appena prima di quell’elaborato equivoco chiamato scisma tra le chiese — questi monachoi, questi individui soli, hanno lasciato città e ville, uffici e mercati per migrare, “pionieri in cammino” come li definirà Thomas Merton, verso un deserto geografico che era anche interiore (eremos, letteralmente “il vuoto”). Antonio e Pacomio, Gregorio di Nissa e Basilio di Cesarea, Evagrio Pontico e Efrem il Siro, Giovanni Crisostomo e Giovanni Cassiano, Teodoreto di Ciro e Romano il Melodo, Palladio e Mosco, Giovanni Climaco e Isacco di Ninive, Massimo il Confessore e Teodoro Studita, Atanasio Athonita e Simeone il Nuovo Teologo, ma anche Melania e Sincletica, Arsenio e Macario, Poimen e Iperechio, Geronzio e Cronio, Barsanufio e Pafnuzio. Alcuni di loro ci hanno lasciato i loro nomi, altri soltanto frasi laconiche e sibilline, resoconti di lotte con demoni interiori, apoftegmi, aneddoti, strane parabole, minuti consigli. Una lunga, abbacinata scia di parole che attraversando deserti e millenni, ispirando poeti e scrittori, illumina ancora di un pulviscolo di luce chiunque oggi le si avvicini, qualunque siano le sue opinioni — che professi o no una metafisica, che ritenga il mondo creato per mettere alla prova la pazienza dell’uomo e misurarla in un Giudizio Finale, o che veda il suo inizio in un Big Bang e la sua fine in un Buco Nero, senza nessuno scopo, né premio né castigo, se non qui sulla terra.