L'anatema dell'imperatore
L’imperatore di Bisanzio citato dal papa scagliò i suoi fulmini contro la violenza che impone il credo
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“Se guardi quel che Maometto ha portato di nuovo, vi troverai solo delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che predicava”. Sono le parole di un imperatore bizantino, Manuele II, quelle che, citate da Benedetto XVI, hanno agghiacciato l’uditorio dell’università di Regensburg. Soprattutto dopo la premessa del papa, secondo cui Manuele “naturalmente conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa”, la Jihad.
In effetti, queste parole potrebbero dare l’idea che Bisanzio e l’Islam fossero opposti da un’incompatibilità violenta e radicale. Che l’idea di una “totale cattiveria” di Maometto, ripresa dal Santo Padre, dominasse l’impero cristiano che da otto secoli aveva avuto a che fare con l’Islam più da vicino.
In realtà, fin dall’introduzione di Manuele II ai 26 “Dialoghi con un musulmano” avuti nel 1391 ad Ankara, l’interlocutore islamico è definito “uomo di retta opinione, che non si compiace della discordia”. La pacatezza degli interventi di quell’anziano direttore di una scuola islamica contrasta con le asprezze di Manuele. Ma secondo gli studiosi la secchezza delle confutazioni dell’imperatore riprendeva non la tradizione dottrinale greca, ma il “Contra Legem Sarracenorum” del domenicano fiorentino Ricoldo da Montecroce: era farina del sacco latino. Manuele aveva le sue ragioni. Era un politico, e si aspettava aiuto dall’occidente contro i turchi.
La maggioranza dei bizantini, invece, dichiarava di “preferire il turbante turco alla tiara latina”, e al momento della conquista da parte del sultano Maometto II la totalità del clero e la maggioranza dei cittadini preferì sottomettersi a lui piuttosto che alla chiesa di Roma.
“La conversione mediante violenza è cosa irragionevole, contraria alla natura di Dio”, dice Manuele II. Ma non si può dimenticare che per i bizantini la “guerra santa” era prerogativa, anzitutto, dei latini: faceva pensare alla devastazione di Costantinopoli nel 1204 da parte dei crociati, e la loro sostituzione delle gerarchie ecclesiastiche. Non è un caso se, quando i crociati diedero fuoco alla moschea di Costantinopoli, i bizantini difesero la popolazione islamica. Nessun islamico aveva né avrebbe mai costretto un bizantino alla conversione, contrariamente a quanto faceva, nelle regioni balcaniche, l’inquisizione.
L’affinità culturale profonda e reciproca con il mondo islamico si era manifestata già con gli arabi, nel califfato, dove san Giovanni Damasceno, il primo padre della chiesa a pronunciarsi sulla fede di Maometto, aveva potuto vivere e lavorare nel monastero di San Saba. Damasceno considerava l’islam un’eresia cristiana, affine al nestorianesimo. Di quest’accostamento, ribadito da allora in poi dai teologi bizantini e latini fino a Nicola Cusano, la citazione usata da Ratzinger mostra del resto l’impronta quando afferma che “per la dottrina musulmana Dio è assolutamente trascendente e la sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie”.
Papa Ratzinger è un grande studioso e non ignora nulla di tutto ciò. E’ probabilmente a ragion veduta che ha voluto mettere l’anatema contro l’islam non in bocca a un teologo ma a un politico come l’imperatore più filoccidentale della storia di Bisanzio. Una storia permeata dal contatto con l’oriente islamico. Una civiltà la cui scomparsa ha privato la modernità della mediazione con quel mondo. Il dialogo tra Manuele II e l’amico musulmano alla vigilia di un disastro - la caduta di Costantinopoli, l’11 settembre dell’evo antico - è anzitutto questo: un dialogo. Che va assolutamente riallacciato.