Storia e fantasia
«Provata» l'ipotesi di Freud su Mosè
Articolo disponibile in PDF
«Cosa rende forte una religione? Non la sua verità ma la sua storia», scriveva Sigmund Freud nel 1935 a Lou Salomé. In quegli anni si stava dedicando a un'indagine che lui stesso definì «romanzo storico»: il Mosè egizio, la sua ultima e più discussa opera, in cui elaborava una congettura eversiva e corrosiva per l'ebraismo: che Mosè fosse egiziano; che la fondazione della religione ebraica fosse da collegarsi al fallito esperimento teologico del faraone Akhenaton/Amenofi IV; che la «rivoluzionaria» nascita del monoteismo giudaico e di qui cristiano non fosse un'ispirazione degli ebrei. Dall'interno della cultura ebraica Freud faceva vacillare lo statuto privilegiato del popolo eletto; uccideva la paternità stessa della massima innovazione religiosa dell'occidente. Una teoria di portata immensa. Ma Freud stesso ne era il primo critico. La giudicava indimostrabile: «Sono cosciente di procedere con la tradizione in maniera dispotica e arbitraria, invocandola a conferma laddove mi conviene, rigettandola laddove mi contraddice». Ma non poteva non rilevare che questo è «l'unico modo di trattare un materiale la cui credibilità è stata gravemente compromessa dalle spinte a deformarla cui è stato sottoposto. Oggi, dopo quasi un secolo, il documentatissimo saggio dell'egittologo di Heidelberg Jan Assmann, che esce domani in italiano per Adelphi, conferma la tesi di Freud con tutta la strumentazione della più avanzata ricerca «positiva»; filologica, storica, archeologica. Dietro il Mosè biblico liberatore di Israele si cela proprio quel Mosè seguace dell'eresia egizia che tra 1367 e il 1350 a.C. sostituì al pantheon politeistico il culto solare e delegittimò una potente casta sacerdotale. Mosè, profeta prima che di Jahvé del Faraone, fu ucciso in una rivolta. La «prova obiettiva» invocata da Freud è stata dunque trovata? Probabilmente si, eppure forse anche oggi Freud le opporrebbe la stessa critica che la lezione analitica gli consentiva di rivolgere a sè stesso: ogni scoperta storica determinante soffre di un'indimostrabilità oggettiva. La parzialità, il «romanzo», contamina ogni nostra conoscenza del passato, specie se è un passato remoto e sepolto, il più importante anche nella psiche individuale. L'illusione contraria dipende solo dai limiti psicologici di chi indaga la storia, quella individuale come quella collettiva: dalla sua propensione a nascondere o a rimuovere la sua parte di fantasia.