C'è il Giubileo: neopagani in festa
Scrittori, filosofi e antropologi ripropongono il mito di una vita senza Aldilà. E si scopre che il Novecento è figlio del Terzo Mondo.
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Come sopportare la vita senza credere in un aldilà consolatorio, nel genere di resurrezione promessa dal cristianesimo? La fede nella metempsicosi o reincarnazione, propria a molte antiche religioni, appare oggi sempre più plausibile al crescente popolo new age, alla massa dei post-credenti, orfani del credo tradizionale ma pervasi dal Nuovo Spiritualismo. Il neopaganesimo, già florido nei primi vent'anni del Novecento, sta rifiorendo. «La mia anima vivrà molte vite», cantava a distesa Battiato nello scorso festival di Sanremo. Ora, in pieno Anno Santo, un'ondata primaverile di libri dedicati al pensiero pagano ne conferma l'attualità. «La religione è varia quanto l'umanità. Le sue risposte alla vita sono talvolta intelligenti e creative, talvolta stupide, assurde e distruttive», esordisce ironicamente Aldous Huxley, l'autore del Mondo nuovo, nella raccolta di scritti sulla morte, il soprannaturale e il divino ora tradotta e intitolata da Piemme L'uomo e dio (pp. 255, L. 24.000). Titolo vagamente tendenzioso, poiché Huxley, ben più che del Dio tradizionale, parla di fenomeni psicofisici, di medium, guaritori, profeti, stregoni, maghi, hatha yogin e «altri bizzarri personaggi che esistono e sono sempre esistiti ai margini di ogni società». Si occupa equanimemente dell'idolatria come del Padre Nostro, dello zen come della religio perennis di Shakespeare e Juan de la Cruz. Profetizza una pietà collettiva in cui l'uomo «dell'ossessionato e dunque nazionalistico, rivoluzionario e violento ventesimo secolo» riacquisterà il relativismo pagano e tornerà a morire nel proprio letto come il suo simile «nato nel tredicesimo secolo, quando esisteva la coscienza dell'eternità». In una religione politeistica gli dei sono individui, come gli uomini, ma immortali. Ignorano tutte le imperfezioni, le lacune e le insufficienze che costituiscono nei mortali l'inevitabile contropartita di una vita individualizzata, scrive Jean-Pierre Vemant, il più grande interprete del pensiero pagano antico, in L'individuo, la morte, l'amore, ora uscito da Cortina (pp. 208, L. 32.000) contemporaneamente a L'universo, gli dei, gli uomini, appena tradotto da Einaudi (pp. 216, L. 28.000). Per quale via una cultura la cui religione non fa affidamento sull'immortalità dell'anima può raffigurare l'eterno? Le soluzioni sono varie. La caduta nell'informe, la perdita dell'io può assumere i tratti della Gorgone, la maschera di Medusa dallo sguardo pietrificante, la morte che fa tornare nel caos. Ma può anche essere riscattata dall'amore, dall'Eros platonico in cui si vede riflessa la propria immagine negli occhi dell'altro. Per riprendere le parole di Platone, è se stesso che si ama nell'amato, e di conseguenza l’individualità per i greci può smarrirsi nel piacere e separarsi nel desiderio, che anticipa le tenebre dell'Ade cancellando i confini. In ogni caso, per il paganesimo, a distruggersi è solo l'anima individuale, non l'anima del mondo, «Tutto perisce col tempo, si trasforma e invecchia, ma in tutto questo tempo il mondo resta immutabile». Non è un breviario buddhista, non un manuale new age, ma il testo chiave del neopaganesimo bizantino, il trattato Sugli dèi e il mondo del platonico Salustio, maestro e consigliere di Giuliano l'Apostata, ispiratore di Athanasius Kircher, ora tradotto per Adelphi (pp. 265, E 22.000). Ma era un mestiere pericoloso quello del filosofo pagano, specie nell'età dello scontro con il cristianesimo trionfante, come annuncia il titolo dell'ultimo libro di Luciano Canfora (Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci. Sellerio, pp. 235, E 18.000). Nel suo lucido stile narrativo, Canfora denuncia quanto il pensiero filosofico non cristiano, dopo l'editto di tolleranza di Costantino e nell'intolleranza antipagana di Teodosio, fosse esposto al pericolo estremo di venire cancellato. Ad Alessandria, la città - simbolo di quello scontro, sede della Grande Biblioteca dei Tolomei, la filosofa pagana Ipazia fu linciata dai monaci cristiani integralisti seguaci del vescovo Cirillo. Ultima erede dell'accademia platonica, insegnava Platone e Aristotele, Euclide e Tolomeo a chiunque volesse ascoltarla, ma fu assalita, strappata giù dalla carrozza, «denudata e massacrata a colpi di tegole, quindi tagliata a pezzi e bruciata». Il ruolo del maestro, in ogni paganesimo, è cruciale e violento. Nei primi Anni Sessanta Carlos Castaneda, giovane studente di antropologia, andò a scuola da uno stregone messicano, il mitico Don Juan, che si definiva un «folle», un brujo, proprio come gli asceti greci del deserto. Al fine di insegnare e corroborare il suo sapere, usava tre piante psicotrope che sarebbero divenute mitiche nella generazione hippie (il peyote, l'erba del diavolo e il fungo allucinogeno Psilocybe) e che chiamava «gli alleati». La volontà di sovvertire la lettura razionale del mondo è al centro della saga psichedelica inaugurata dal celebre A scuola dallo stregone e continuata nel secondo volume, Una realtà separata. Nuove conversazioni con Don Juan, ora uscito da Rizzoli (pp. 333, L. 30,000). L'incontro con questo genere di perdita dell'io, che Castaneda chiama «infinito», è al centro della cognizione sciamanica, e il moderno spiritualismo neopagano si nutre delle tradizioni e degli esempi dei paganesimi «primitivi» e tribali. Studiato dagli antropologi, affluito da altri continenti, l'universo panteistico del Terzo Mondo fonda l'estetica del Novecento, seduce i moderni con lo sguardo allucinato delle sue maschere, rivive nei quadri cubisti, si confessa nei «cristi minori» africani supplicati da Apollinaire.