Padri del deserto, voci di saggezza
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Tra il quarto e il quinto secolo della nostra era il deserto, quell'antica Terra Desolata, conobbe un'improvvisa popolarità in lingua greca, latina, siriaca, copta i letterati ne esplorarono le immagini, la geografia fisica e simbolica, strani viaggiatori ne frequentarono i crocicchi — Nitria e Sceta, Tebaide e Calcide, le grotte del Sinai e le secche del Nilo popolate di demoni — muovendo dalle ricche ville dell'Aventino e dalle capanne copte, viaggiando tra le dune da soli o in gruppi, a piedi o su cocchi sormontati da baldacchini.
Luoghi negletti da una civiltà non più romana e non ancor romea o bizantina, i deserti accecanti dell'impero assediato dalla barbarie presero a popolarsi di una folla di anachoretai letteralmente, i «profughi». Si trattava a volte di dame o d'intellettuali destinati a divenire santi: le due Melanie, che appartenevano alla gens Antonia, consanguinee dell’imperatrice Eudocia, Paolino da Nola, le cugine Paola e Eustochio e, amico loro, Girolamo.
Ma nella maggioranza il popolo del deserto proveniva dai nuovi ceti rurali, dal relativo benessere seguito alla gravitazione politica dell'impero verso oriente. Non più fatalisticamente sottomessi, non ancora innovatori, questi giovani egiziani benestanti erano profughi dall'ordine sociale, refrattari alle sue leggi e alla sua stessa logica, avversi alla sua filosofia, intolleranti della sua retorica. Nella letteratura sui padri del deserto, nell’apparente pazzia del monaco salos, il linguaggio medesimo è scardinato dal nonsense. Lw espressioni diverse di quest'improvvisa, estrema impossibilità a conformarsi ispirano pagine indimenticabili agli intellettuali dell'epoca: la Vita di Antonio scritta da Atanasio, l'anonima Storia dei monaci in Egitto, la Storia Lausiaca di Palladio, le Vite e le lettere di Girolamo, la Storia religiosa di Teodoreto di Ciro, il Prato spirituale di Mosco.
Un'affinità innegabile lega a monaci del deserto un monaco del ventesimo secolo, Thomas Merton, che tuttavia a quelle narrazioni ha opposto una riserva morale e, in certo senso, dottrinale, proprio l'intellettualismo di quei «viaggiatori di passaggio», di quegli «ammiratori indiscreti» potrebbe secondo Merton aver contaminato di fanatismo, esasperato fino al paradosso e perciò in qualche modo tradito, la contestazione solitaria di questi fuggitivi; che erano in realtà, a sentire Merton, «persone umili, tranquille, sensibili», «umane o normali», «dalla concisione rassicurante».
Per recuperare il loro vero modo d’essere Merton si rivolge, anziché agli scritti «di chi tornava in patria a pubblicare libri», ai Detti medesimi dei padri o meglio ai loro fatti, la cui «spontaneità, originalità, immediatezza, assenza di convenzionalità» sarebbe «garanzia di autenticità»: «acqua pura» da assaporare per ripercorrere, con sottintesa citazione dei Salmi, «il ruscello fino alla sorgente».
Ora questo giudizio sullo maggiore veridicità delle raccolte di sentenze rispetto alle narrazioni letterarie è teoricamente comprensibile ma filologicamente infondato. Nell’agiografia della Controriforma esso ha origine dall'esigenza di svalutare l'aspetto anarchico del monachesimo eremitico delle origini per privilegiare i valori rassicuranti del successivo monachesimo cenobitico.
Le cosiddette Parole dei padri sono un testo tardo e manipolato. A partire dalla tradizione orale in lingua copta, che risaliva al IV secolo, la redazione più antica è quella greco degli Apophtegmata patrum, compilata verso la fine del V, vanamente rielaborata e poi ritradotta in latino probabilmente nel VI secolo. In piena Inquisizione il gesuita belga Roswoyde, basandosi sugli apografi di questa traduzione latina, a sua volta purgò e pubblicò con l'Imprimatur del Cardinal Bellarmino i Verbo seniorurn, su cui si basa la scelta e la traduzione inglese di Merton; dalla quale ultima proviene la versione pubblicata da Guanda (peraltro, come c'informa la poco esauriente Nota alla traduzione italiana, «confrontata con l'originale»).
A chi abbia interessi esclusivamente documentari gioverà dunque leggere piuttosto, in lingua italiana, l'attendibile ed ampia raccolta che a suo tempo curò Cristina Campo (Detti e fatti dei padri del deserto, Rusconi 1975, recentemente ristampata), che si basa su edizioni critiche e tiene conto, oltreché della versione greca, della tradizione copta, siriaca e armena. Ma in questo caso l'obiettività o l'oggetto stesso sono meno importanti del soggetto curante, l’antintellettuale, ex marxista monaco raccoglitore Thomas Merton, la cui lettura attualizza gli antichi verba con la vertiginosa e riduttiva chiarezza di idee di un predicatore americano.
L'opposizione fra dire e scrivere da un lato e fare, vivere dall'altro, è al centro della tesi di Merton. Negli aneddoti scelti la lettura è sempre condannata, i libri spesso svenduti. L'abate Serapione vende il suo ultimo libro, il Vangelo, dando via in tal modo «proprio le parole che gli dicevano di dar via tutto». Ma forse il manifesto della peculiare militanza di Merton è il detto dell'abate Pastor: «Se una cassa piena di abiti viene abbandonata per lungo tempo, gli abiti contenuti in essa marciscono, cosi sono anche i pensieri nel nostro cuore. Se non li metteremo in atto concretamente, nel tempo si deformeranno e marciranno».
Una raccolta cosi orientata potremmo definirlo, con i bizantini, catena, se è vero che alla saggezza del verba prescelti si legano come s'è visto opinioni o «verbi» dell'esegeta, senza soluzione di continuità, con schiacciamento dei secoli nella certezza dell'affinità. Merton, Father Louis, di padre pittore e madre quacchera, ammiratore di Blake e Pound e di Huxley filosofo, postgraduate di Cambridge, trappista a ventisei anni, vuol essere considerato un Padre del Deserto. Alla Tebaide si è sostituito il deserto post nucleare del ventesimo secolo, l'abbazia di Gethsemani, Kentucky, è dislocata in un altro impero, allo scoccare degli Anni Sessanta, all’esplodere delle prime atomiche nell’atmosfera, al lancio dei primi razzi nello spazio «Quale vantaggio, può venirci dal salire sulla Luna se non siamo in grado di attraversare l’abisso che ci separa da noi stessi?». E indubbiamente gli accenni all’imperialismo riguardano l’America, non la Bisanzio di Antonio e Serapione.
Con effetto di straniamento, la cosi forte personalità di Merton ci sbalza dalla provincia egiziana degli asceti a quella americana degli shakers, candidamente s'interroga se «qualche personaggio simile ai padri del deserto possa trovarsi tra gli indiani Pueblo o i Navaho», o testualmente li definisce «pionieri in cammino». DaII'Alessandria degli gnostici e dei neoplatonici (non dei pitagorici: sic, p. 23) siamo trasportati alla nera, fumosa New York descritta nell'autobiografica Montagna dalle sette balze, dove il giovane mistico vaga «su quegli autobus che si prendono all'angolo di Broadway con lo 110 Strada» alla ricerca del De diligendo Deo di San Bernardo; «Ma quando avevo trovato che l'unica buona copia era in latino non l’avevo chiesta» ...
«La nostra» scrive Merton nell'introduzione «è certamente un'epoca di solitari e di eremiti. Ma il nostro mondo è diverso dal loro. I nostri lacci sono più stretti. Il rischio che corriamo è molto più preoccupante».
Pessimista, apocalittico, Father Louis morì a Bangkok. Lo scorcio della suo esistenza trascorse in un’ascesi influenzala dallo yoga e dallo zen, nella convinzione che la «vita dei solitari» abbia cause comuni e al pari del deserto passaggi obbligati, come anche questo libro conferma nei puntuali accenni dei vegliardi cristiani agli esercizi respiratori o alla preghiera esicastica, e benché la chiesa cattolica, come dimostra il recente attacco del cardinale Ratzinger alle pratiche zen nei monasteri, ne abbia ormai perso memoria.