Silvia Ronchey

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Religione, teologia, mistica

Tutti gli dèi nascosti dietro al dio chiamato Gesù

Riti di Mitra, misteri dionisiaci, saturnali e la “vera” Epifania. Ritorna “Jesus Rex”, il capolavoro di Robert Graves

06/01/2016 Silvia Ronchey

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La Repubblica

Nel 1614 Keplero, dopo laboriosi calcoli, dimostrò che nel 7 a.C., quando dovette grossomodo avere luogo la nascita di Gesù (che il calendario etiopico colloca nell'8 a.C. e che comunque non poté precedere il 5 a.c., anno di morte di Erode), Giove e Saturno ebbero tre congiunzioni ravvicinate nella costellazione del Pesce, un evento raro che avviene ogni svariate centinaia di anni e che era stato tuttavia già, previsto, si dice, dagli astronomi cal­dei. Una di queste congiunzioni fu nel mese di dicembre. Non che l'evento in sé spieghi la "stel­la grandissima", che secondo i te­sti sacri—Matteo 2, 1-12, ma so­prattutto gli apocrifi — sarebbe apparsa in quel tempo e avrebbe segnalato ai Magi la nascita di "un re per Israele"; o giustifichi un aumento della luminosità ta­le da oscurare le altre stelle, co­me scritto nel Protoevangelo di Giacomo. Né risulta compatibile con la cronologia della nascita di Gesù la visibilità della cometa di Halley, il cui passaggio si ascrive al 12 a.C. Ma la relazione tra il for­marsi del calendario liturgico protocristiano e gli eventi astro­nomici che già sostanziavano i ri­ti delle più antiche religioni, zoroastriana anzitutto e poi roma­na, è indubitabile.
La festività che nel mondo cristiano ortodosso è detta "del­le Luci" (ton Photon) accomuna in un breve giro di calendario il pellegrinaggio escatologico dell'élite pagana d'oriente e la fe­sta solare chiamata nell'antica Roma dies natalis Solis Invicti, e ancora oggi da noi Natale; a sua volta legata sia ai Saturnali, sia alla festa di Mitra, il cui culto mi­sterico prettamente maschile, originariamente indopersiano, romanizzato nella pratica ritua­le degli eserciti, era in grande espansione nel periodo in cui nacque la fortunata eresia giu­daica che le scritture canoniche ed extracanoniche associano al­la nascita di un "nuovo re di Israele" proprio in occasione dell'evento che qui festeggiamo il 6 gennaio e chiamiamo Epifa­nia.
Nome a sua volta desunto dalla terminologia dei misteri greci. È l'epiphàneia di un dio, la sua sacra manifestazione, al cen­tro della leggenda della stella e dei Magi. I tre maghi persiani dal cappello a cono del mosaico di Sant'Apollinare Nuovo a Ra­venna, i Drei Konige sulle cui ma­gnetiche reliquie si impennò la cattedrale di Colonia,i tre savii stranieri dai nomi incerti e con­torti che seguirono la stella ed ebbero l'epifania di un fanciullo divino, si prostrarono, scrive Matteo, con la rituale proskynesis che si riconosce al capo di un'altra e nuova religione, recan­dogli il crisma dei sommi doni sa­pienziali. «I misteri religiosi so­no in gran parte connessi con le predizioni astronomiche», scrive con apparente candore Ro­bert Graves all'inizio della terza e culminante parte di Io, Gesù, il capolavoro (ora ripubblicato da Longanesi, e all'epoca intitolato Jesus Rex) che settant'anni fa dedicò al formarsi del culto di quelli che chiama i crestiani — i seguaci del Chrestòs, in greco "il Buono" — nell'epoca che va ap­punto dalla teofania occorsa ai Magi a quello che definisce «lo scisma dei gentili, capeggiato dal visionario Paolo di Tarso. Un culto che sancisce — è la grande teoria di Graves, che fa qui la sua prima comparsa—la vittoria del­le religioni dominate da divinità maschili, di cui JHWH, il dio onni­potente del monoteismo biblico, è l'esempio massimo, sulla reli­gione femminile originaria, quel­ la della Grande Dea, cui Graves dedicherà due anni dopo il suo li­bro più noto, La dea bianca. L'e­clissi della divinità lunare e l'o­blio del suo culto porteranno a fraintendere l'identità storica di Gesù, che nella ricostruzione di Graves, fantastorica, deliberata­mente fantasmagorica ma non per questo meno scientificamen­te probante, riunisce in sé, per di­scendenza matrilineare, un'ef­fettiva e clamorosa regalità. La legittima successione del trono di Davide, ossia dell'antica Israe­le, e di Erode, ossia della Giudea romana, gli è assicurata da Ma­ria, vergine di sangue regale con­sacrata al Tempio, che ha però segretamente sposato uno dei fi­gli di Erode, avuto dalla prima moglie, di altrettanto impeccabi­le discendenza idumonea. È alla luce dell'effettivo status di aspi­rante Rex Iudaeorum che Graves interpreta, nel finale del li­bro, l'udienza personale conces­sa da Pilato a Gesù, il suo straor­dinario favore, l'inusuale titulus, INRI, apposto per suo ordine alla croce; così come il successi­vo, irrazionale e imprevedibile svolgersi del fatti, la catena di fraintendimenti, censure, ten­denziosità che plasmeranno, in un sincretismo assoluto e a tratti costernante, la nuova religione maschile destinata a pervadere i confini dell'impero romano, dal medio oriente giudaico all'estre­mo occidente celtico, di quella gelosa idea di elezione e linearità, legata a un'inquietante pro­messa di "al di là", che si sostitui­rà alla preesistente idea femmi­nile di ciclicità della storia come della natura del cosmo.

Al bene informato Agabo, alter ego narrante di Graves nell'ipotetico anno Domini 93 d.C. cui la narrazione è ascritta, il nuovo culto si presenta domi­nato da un rito conosciuto col no­me di eucarestia e adibito «a co­modo ponte tra il giudaismo e i culti misterici greci e siriani, in cui il sacro corpo di Tammuz vie­ne mangiato sacramentalmente e sacramentalmente bevuto il sa­cro sangue di Dioniso», il dio "Fi­glio della Duplice Porta", nato prima a sua madre Semele e poi al padre Zeus, cui Gesù somiglia anche nell'avere due date astro­nomiche di nascita: a quella del solstizio d'inverno, che coincide con la nascita del sole, si aggiun­ge quella estiva cui si riconduce il suo battesimo — rappresenta­to con matematica perfezione neoplatonica da Piero della Fran­cesca — che coincide con la leva­ta eliaca di Sirio, la stella messia­nica del versetto di Isaia.
In Io, Gesù Graves, super­bo esperto di mitografia greca ed ebraica, dipana il sincretismo fin dalla Natività. Se la Vergine Madre dalla veste azzurra e dal­la corona di stelle d'argento è ne­cessaria ipòstasi di Iside, nella grotta la mangiatoia dov'è ada­giato il Bambino ripropone quel­la usata allo stesso scopo nei mi­steri delfici ed elusini e il bue e l'asino, cui già allude Isaia, sim­boleggiano i due messia promes­si, il figlio di Giuseppe e il figlio di Davide, che il neonato adorato dai Magi riunisce. La sua storia ha tratti in comune con quella di Pèrseo, che il re Acrisio tenta di uccidere in fasce.
Nella narrazione di Graves, ironicamente accademica, irresistibilmente sacrilega, im­placabilmente laica, i Magi non sono nulla di ciò che per due mil­lenni l'esegesi dei teologi cristia­ni o degli storici delle religioni o tanto meno degli esoteristi e teo­sofi in voga in quegli anni ha abil­mente e spesso fondatamente congetturato, ma solo tre ebrei damasceni della tribù di Issachar, che nel palazzo di Erode a Gerico si presentano come astrologi appartenenti alla nuova set­ta degli "alleanzisti": hanno sti­pulato una nuova alleanza con Dio attraverso la mediazione di uno spirito chiamato "Colui che viene" ovvero "la Stella", che se­condo la loro previsione si incar­nerà quanto prima sotto spoglie umane e darà a Erode gloria eter­na. Ma Erode stesso ha basato la sua politica e il suo regno sulla congiunzione astrale di Giove e Saturno individuata da Keplero nel 1614. Dal fallimento del pia­no dinastico di Erode, che in Graves si snoda in sostanziale ade­renza a Matteo, ascende l'astro del nuovo re che i tre astrologi giudei hanno correttamente in­dividuato e adorato, ma che non sarà scorto in vera luce dai genti­li. I suoi Atti e detti, originaria­mente scritti in aramaico, riceve­ranno, riferisce il beffardo Agabo, versioni multiple di una tra­duzione greca «erronea, a volte goffa e di tanto in tanto fraudo­lenta», cosicché i fondatori delle chiese gentili fraintenderanno «così stranamente la sua missio­ne da fare di lui la figura centrale di un nuovo culto che, se lui oggi fosse vivo, giudicherebbe solo con avversione e orrore». Lo ve­dranno come un giudeo rinnega­to che «unendo la propria sorte a quella degli gnostici greci aspirò a una sorta di divinità apollinea, per di più fornendo credenziali che devono essere accettate per cieca fede — suppongo perché nessuna persona ragionevole», aggiunge Agabo, «potrebbe mai accettarle in alcun altro modo».


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