Se ci sono le icone, esiste anche Dio
Alla comunità di Bose un dialogo tra ortodossi e cattolici
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“Esiste la Trinità di Rublev, dunque Dio esiste”, è il celebre sillogismo di Pavel Florenskij nelle sue “Porte regali”, il più celebre saggio sull'icona. Perché, spiegava Florenskij, “il visibile e l'invisibile sono in contatto, ma la differenza fra loro è così grande che non può non nascere il problema del confine”. La linea di confine è la nostra psiche, in cui “la vita nel visibile si alterna alla vita nell'invisibile” in una serie di stati. Il più comune è il sogno, il più raro l'estasi mistica, quando “l'anima si inebria del visibile e, perdendolo di vista, si estasia”. Secondo le parole dei teologi bizantini, le icone sono “rappresentazioni visibili di spettacoli misteriosi e soprannaturali”. Il più grande di questi teologi è Giovanni Damasceno, che operò nell’VIII secolo in quella fertile area culturale che faceva capo al monastero di San Saba, in Palestina, e al tollerante mecenatismo dei califfi fatimidi di Damasco. Giovanni Damasceno è divenuto da allora in poi il padre della teologia dell’icona a Bisanzio e in tutto il mondo cristiano.
Non è un caso che Damasceno e Rublev – il più grande difensore filosofico delle icone, il pittore di icone più filosofo della storia dell’arte – siano accostati nel XIII Convegno Ecumenico Internazionale di Spiritualità Ortodossa che si apre domani a Bose: “Giovanni di Damasco: un padre al sorgere dell’Islam” la sessione bizantina, dall’11 al 13 settembre, “Andrej Rublev e l’icona russa” la seconda sessione, dal 15 al 17.
L’instancabile comunità guidata da Enzo Bianchi riunirà l’aristocrazia intellettuale delle due chiese: studiosi e prelati ortodossi e cattolici, dai rapporti tanto difficili, dialogheranno all’altezza spirituale e culturale dell’illuminata alchimia ecumenica che Bose persegue da decenni con arduo lavoro interconfessionale e profondo studio filologico.
Fin dal pensiero greco, da Platone, l'immagine era, nel mondo sensibile che le dava supporto, la manifestazione dell'intellegibile puro. Protratta lungo il millennio di Bisanzio, l'astrazione del platonismo aveva instillato all'arte figurativa cristiana un linguaggio teologico. Ma nel pensiero platonico rimaneva anche una deriva di condanna dell’icona, come di qualsiasi rappresentazione artistica, “immagine di un’immagine”, essendo già per Platone il mondo reale immagine del mondo delle idee. La condanna dell’immagine, influenzata dall’Islam oltreché dall’aniconismo ebraico, nei secoli successivi alla conquista araba penetrò il pensiero cristiano orientale e diede vita all’iconomachia, la “lotta contro le immagini”, e al complesso fenomeno storico dell’iconoclasmo.
I bizantinisti definiscono in genere questi secoli di sincretismo e di incontro “secoli oscuri”. La definizione è corretta se s'intende “oscuro” nel senso di “incognito”, giacché l’età iconoclasta rimane tuttora per più motivi una zona d'ombra nella storia del Mediterraneo. Ma non se s'intende “oscuro” nel senso di “oscurantista”. Questa valutazione ormai superata della fertile era della lotta sulle icone dipende da un pregiudizio della storiografia latina, e prima ancora greca orientale, contro l’unione delle culture.
Se è vero che per il popolo dei fedeli le icone erano uno strumento di salvezza e tutta la disputa dell'iconomachia può leggersi, nella storia del cristianesimo, come disputa sul problema della salvezza, più in generale, dal punto di vista della storia della filosofia, la sconfitta dell'iconoclasmo rappresenta la sconfitta, anche se non certo la scomparsa, del platonismo nelle sue implicazioni e applicazioni orientali, giudaiche prima ancora che islamiche, e l'affermarsi dell'aristotelismo come filosofia ufficiale del cristianesimo medievale, nella sistemazione che fornì per primo alla cultura orientale, con largo anticipo rispetto a quella occidentale, proprio Giovanni Damasceno. Non solo, nelle sue “Orazioni sulle immagini”, il campione dell'iconodulia difende la potenzialità salvifica dell’arte, accomunando fra l’altro nella definizione di eikone pittura e scrittura. Ma nella sua figura si incarna anche la posizione polemica di un'ampia fazione della chiesa nei confronti dell’impero, e alla discussione teologica si intrecciano problematiche politiche di grande portata per la storia dell’occidente e della sua identità culturale.
I PARTECIPANTI
La vastità e coralità della partecipazione ecclesiastica al convegno ecumenico di Bose è straordinaria, in tempi, come questi di frammentazione e di sospetto. La chiesa bulgara, che pure ha rotto tutti i collegamenti e si è addirittura ritirata dal Consiglio Ecumenico delle Chiese, ha mandato il metropolita Kalinik di Vratsa, con un messaggio del patriarca. La chiesa serba ha inviato come delegato ufficiale l’igumeno Danìl di Belgrado. Senza contare le chiese maggiori, patrocinanti il convegno, e cioè Costantinopoli, Mosca e Atene, fortemente rappresentate da delegazioni e messaggi, e naturalmente le alte sfere di quella cattolica (il nunzio apostolico a Mosca Antonio Mennini, il cardinale Silvestrini, monsignor Bonny del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani per menzionare solo alcuni dei rappresentanti vaticani) e di chiese riformate come l’anglicana, è significativa la presenza di chiese come l’armena e di altre chiese orientali aperte sull’arabicità, soprattutto quella di Antiochia, presente con il vicario patriarcale e il vescovo Gattas, che viene proprio da Damasco. Anche la qualità degli studiosi greci presenti mostra il volto di un’ortodossia che si fa capire in ambienti laici, dialogando col mondo e non solo con le chiese: il teologo e filosofo ortodosso Christos Yannaras, o Nikita Aliprandis, membro fra l’altro del Parlamento europeo di Strasburgo. Ad ascoltarli, moltissimi studenti, non solo italiani, ma di università americane inglesi e francesi. E naturalmente i loro professori: tra i bizantinisti spiccano grandi nomi come Bernard Flusin venuto dalla Sorbona, Gerhard Podskalsky da Francoforte, Nancy Sevcenko da Dumbarton Oaks.