L'impero di Bisanzio affondato dai Dogi
"Venezia e Bisanzio" di Donald M. Nicol
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Quella di Venezia è la storia di un'antitesi rovinosa, che stringe nel nodo di pochi secoli, dalla fine del Medioevo, gli elementi di un conflitto etico oltreché storico, quasi di un duello allegorico: l’oligarchia liberale che contraddice il dispotismo teocratico; il potere del mercato in competizione con quello dell'ideologia.
Nel conflitto con Bisanzio. Venezia incarna per molti versi la modernità. In antitesi all'immobilismo dello Stato orientale, l'attivismo dei Dogi si attiene a una visione economica e pragmatica dei fatti politici. Pluralista nelle istituzioni, almeno rispetto allo monarchie medioevali europee, la Repubblica combinò impresa di Stato e iniziativa privata guadagnando nel Levante una ricchezza incommensurabile al numero degli abitanti. Come già nell'antica democrazia mercantile di Atene, ciò porta a un'alta valutazione dell'individuo: in tempi e luoghi in cui le vite umane si sterminavano in massa, ogni cittadino di Venezia valeva migliaia di ducati, come dimostrano i riscatti pagati dalla Serenissima ai sultani turchi.
In antitesi alla modernità di Venezia. Bisanzio è il simbolo stesso della cultura antica e dell'antica visione del mondo. L'incendio turco vide perire, insieme con Costantinopoli e con le sue biblioteche, le ultime tracce di vita della classicità. Ma per mille anni a Bisanzio i classici erano rimasti presenti nel vasto circuito della pubblica istruzione imperiale: non in piccoli circoli, ma nel quotidiano esercizio del linguaggio e della scrittura di una grande e plurietnica classe notabile. Antiche, o tardoantiche, erano le strutture economiche dell'impero, le sue forme di produzione. A impedire lo sviluppo di un feudalesimo bizantino fu una precisa visione del ruolo dello Stato. Pochi sanno che a Bisanzio, in termini strettamente giuridici, non esisteva la proprietà privata. Dalle rive del Bosforo la civiltà bizantino presidiò i confini del Mediterraneo mediando tra antichità e progresso e tra Oriente e Occidente: come diranno i turchi, tra Rum e Rumelia.
La caduta di Bisanzio è secondo alcuni storici la tragedia di Venezia, secondo altri la sua imperdonabile colpa: di quest'avviso è Donald Nicol, massimo studioso inglese del tardo impero bizantino. Nel suo libro su Venezia e Bisanzio uscito due anni fa a Cambridge e ora tradotto da Lidia Porria, Nicol ripercorre la storia dei due stati dalle origini, nel quinto secolo, sino alla catastrofe del 1453. La tesi di Nicol rispecchia l'ottica della bizantinistica, la quale sfrutta un nuovo e decisivo punto di osservazione del Medioevo. Nello studio di Nicol le fonti greche sono attinte di prima mano. Le notizie sui rapporti politici o culturali di Venezia e Bizanzio sono allineate in una piana e comprensibile diacronia, se pur non senza minuzia e con lieve ingenuità narrativa («l'imperatore pensò»..), che peraltro è tipica della divulgazione storica anglosassone.
In nome degli interessi mercantili veneziani Bisanzio fu progressivamente e deliberatamente minata all'interno e privata di una difesa esterna. A causa della guerra economica di Venezia con Genova l'impero fu indebolito noi suoi scali strategici, rasi al suolo e resi inabitabili e indifendibili perché non servissero da approdo alle flotte concorrenti. Contemporaneamente la basileia fu destabilizzata da guerre civili e guerriglie finanziate e armate dalla medesima Serenissima. Mentre la fiotta del Turco cresceva, come scrivono gli antichi cronisti, «procedendo nel senso del sole», per l'impossibilità di armare navi proprie gli imperatori bizantini confermarono a Venezia privilegi commerciali che crescevano a ogni quinquennio sia nelle interminabili trattative degli ambasciatori, sia nelle formidabili interpretazioni dei legali della Repubblica. Il padre di Anna Comnena. Alessio I, aveva concesso ai veneziani i primi monopoli, le prime franchigie, perfino le mescite di vino lungo le rive occidentali del Corno d'Oro: in tre secoli un crescendo di violenze insanguinò quelle darsene. La commedia di Pantalone diviene tragedia: cade la maschera accattivante e borghese e appare una maschera di orrore.
Vi è molto di sinistro nei resti dell'Impero commerciale che i veneziani, i Capitani del Golfo, i Duchi dell'Arcipelago, i Podestà di Nauplia. i governatori di Tino e Micono lasciarono alla posterità: tetre fortezze, porti fortificati e prigioni con lo stemma del Leone di San Marco. Le bellezze artistiche accumulate nella laguna sono in fondo quelle di una bottega di usuraio. Se «nell'infame e satanico spirito del commercio» Baudelaire vedeva la prima maledizione della modernità, il comportamento di Venezia, lungo le pagine del libro di Nicol, non ricorda forse la strozzine di Roskol'nikov?
I veneziani, scrive Nicol, erano capaci di mettere un prezzo anche alla Corona di Spine. Un cronista veneziano annota che l'ultimo imperatore di Bisanzio, quando morì nella mischia coi turchi, doveva ancora alla Serenissima diciassettemila hyperpyra. Narra un pellegrino russo che quando Manuele II si sposò a Santa Sofia, parato dei gioielli della corona, la basilica era presidiata dagli emissari di Venezia perché quei gioielli non venissero trafugati’ all'inizio della guerra civile esicasta le erano stati doti in pegno, a garanzia dei finanziamenti forniti dalle banche della Repubblica. I sovrani Paleologhi si portarono dietro quel debito come una maledizione fino alla caduta di Costantinopoli. I gioielli della corona di Bisanzio sono ancora oggi conservati e ammirati a San Marco, cosi come le ricchezze trafugate durante la Quarta Crociata, gli ori e le reliquie, già nel Medioevo meta redditizia di pellegrinaggi: quante volte sarà stato ripagato quel debito, su cui l'usura dei Dogi impoverì l'impero dei dotti?
Non furono i turchi a far cadere Bisanzio: l'impero che Maometto II raccolse era già ostaggio di una logica finanziaria estranea all'antica cultura imperiale. Mentre il popolo si ribellava contro lo colonia veneziana, il governo era costretto a subirne le esazioni economiche, ad accettare prestiti a tassi d'interesse sempre più alti: nella tragedia di Bisanzio, il profitto privato fu deus ex machina. Protagonista e antagonista recitarono sino in fondo le loro parti. Ogni particolare valutazione dei dogi fu certo sempre coerente, il loro generale pessimismo sempre giustificato. Ma l'insieme di quei che il loro operato sortì è definito da Nicol, con eufemismo anglosassone, «scarsamente credibile in un'opera di fantasia.»
Pacatamente, pagina dopo pagina, Nicol sottopone la politica di Venezia al suo atto d'accusa: allinea un'implacabile documentazione, enumera misfatti bellici e crimini d’onore. Quando i turchi assediarono Tessalonica, il governo veneziano obbligò la seconda capitale dell'impero a resistere a oltranza, contro ogni realismo. La Serenissima aveva investito ingenti capitali in città e non voleva assolutamente perderla: i figli dei greci dovevano morire di fame, pena l'arresto e la deportazione dei padri quando non lo tortura o la condanna a morte per tradimento. Ma allorché Tessalonica cadde e per tre giorni e tre notti subì il vendicativo saccheggio islamico, le navi in attesa nel porto permisero la fuga ai soli funzionari veneziani, non ai civili bizantini sterminati a migliaia.
L’ultima crociata delle potenze europee contro il sultano, invocata da un'intera generazione d'intelluttuali, fu compromessa e fors'anche tradita da Venezia: nella battaglia di Varna i veneziani si lasciarono corrompere per aiutare i turchi nella traversata del Mar Nero: quando i pochi cavalieri cristiani superstiti cercarono una via di scampo nessuna nave veneziana offrì loro asilo: la Repubblica si riservava di stipulare accordi commerciali coi vincitori turchi. Quando infine Costantinopoli fu stretta d'assedio, la flotta del papa parti troppo tardi anche a causa del mercanteggiamento del Dogi sugli accordi finanziari per armarla ed equipaggiarla.
Dell’assedio di Costantinopoli narra, tra le altre, la cronaca del veneziano Barbaro, medico di bordo: una narrazione grandiosa di eroismo e quasi deliberato sacrificio e suicidio di paladini veneziani. I Contarini e i Cornaro, i Mocenigo e i Dolfin tennero a lungo le porte delle mura; le navi dei mercanti cariche di balle di cotone e di lana si pararono dinanzi al Corno d’Oro, ripararono le cupole d’oro dalle cannonato turche spioventi dal largo. Ma neanche di quest'unico, finale riscatto di Venezia si può stare sicuri. poiché i greci presenti non ci hanno tramandato la loro versione: i greci, contadini e nobili, marinai e filosofi, rimasero intrappolati nel Bosforo su life-boats troppo gremite per prendere il largo, mentre pronta alla fuga la marina veneziana teneva semivuote le sue galere, cosi leggere «che non vi erano bastevoli marinai per issarne il veleggio».
Chi si salvò dei bizantini non lasciò scritte che poche strane frasi, come il grande storico Sfranze, o assenti preghiere come il patriarca Gennadio. Vale la pena di leggere, insieme con gli ultimi due capitoli del libro di Nicol, le testimonianze pubblicate da Pertusi nei due volumi della Fondazione Valla sulla Caduta di Costantinopoli: la voce dei greci si frantumò in versi e litanie di inni, descrisse visioni di arcangeli, riferì che sulle mura in fiamme l'imperatore era pietrificato.
Se Venezia fu il parassita di Bisanzio, l'impero veneziano, vissuto all'interno di quello bizantino, perì con la suo morto. La dissoluzione fu rapida: capitolate in sequenza le megalopoli romèe di Tessalonica, Costantinopoli, Mistrà, Trebisonda, l'una sull'altra rovinarono come un castello di carte le teste di ponte veneziane nel Peloponneso, il ducato di Nasso, Creta. Le nuove rotte commerciali, aperte per contrappasso dai genovesi ai regni europei, tolsero ai veneziani anche i clienti. La Serenissima immersa nell’oro piombò in una carnevalesca e sinistra decadenza.