Uno Sherlock Holmes tra i papiri di Bisanzio
Bizantini: bibliotecari dell'antichità . "Filosofi bizantini" di N.G. Wilson
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Nella Grecia degli anni Sessanta il regime dei colonnelli ha epurato il testo dello commedie di Aristofane, che invece a Bisanzio per un millennio non solo non subì mai la censura, ma fu incluso tra gli autori canonici, studiato nelle scuole, copiato dagli scribi, edito e commentato dai filosofi: oggetto di cura e culto istituzionali, fu consegnato allo modernità. Se oggi noi possiamo leggere la commedia e la tragedia antica, Omero e Pindaro, Platone e Aristotele, è grazie non alla casuale e saltuaria virtù dei papiri ellenistici, che dei testi classici hanno trasmesso una frazione minima, ma alla classe dirigente bizantina, spesso identificandosi con l’élite intellettuale (Fozio, l'autore della Biblioteca, divenne patriarca di Costantinopoli, Psello fu console dei filosofi e primo ministro) essa si fece carico di tutta o quasi lo loro tradizione manoscritta.
Attraverso le tappe di quell'umanesimo orientale che gli storici di Bisanzio scandiscono in più «rinascenze» (studita e macedone, comnena e paleologa) gli intellettuali greci trasmisero la loro eredità direttamente agli umanisti dell'occidente, promuovendo anche qui la riscoperta dei classici e in definitiva causando, ultima e più celebre di tutte, la Rinascenza italiana.
«Bibliotecari dell’antichità» sono stati definiti i bizantini. Il libro che il filologo e paleografo inglese Nigel Wilson ha scritto nel 1983, oggi pubblicato in traduzione italiana e presentato da Marcello Gigante, è la più importante e aggiornata sintesi sulla storia della tradizione bizantina dei classici; ed è, in primo luogo, una storia di biblioteche e di manoscritti. I codici che avventurosamente giunsero in Italia, in Olanda, in Germania prima e dopo la caduta di Costantinopoli erano il prodotto di una civiltà scrittoria che aveva sempre avuto il libro come centro, oggetto, quasi, di una religione indipendente. E se le dispute teologiche, ad esempio l’iconoclasta, ebbero una base testale, documentaria e libraria, Bisanzio, al contrario che in occidente, la chiesa non fece mai roghi di libri, limitandosi se mai a custodire i più temibili nei forzieri del patriarcato di Costantinopoli. E’ la babelica biblioteca imperiale, se non fu mai accessibile al pubblico, tuttavia servì da base alla stesura di gigantesche enciclopedie: gli Excerpta Constantiniana che un illuminato imperatore destinò alla divulgazione colta hanno tramandato fino a noi le pagine degli antichi testi storici periti nel finale incendio del 1453. Dall’era della traslitterazione dei classici in minuscola negli scriptoria monastici a quella della loro revisione e raccolta nei centri d'istruzione universitaria, il passato classico fu a Bisanzio il riferimento di ogni autorità politica o spirituale. E da Areta a Bessarione la biblioteca fu per molti intellettuali bizantini il surrogato d'ogni realizzazione esistenziale.
Tra l’una e l'altra delle biblioteche bizantine superstiti viaggia da decenni Nigel Wilson, questo flemmatico viandante, coi tempi lenti dell’antichità e rifiutandosi di prendere l'aereo. «Palpando i fogli e soppesando la filigrana», come scrive Gigante nel suo partecipe saggio introduttivo, egli ricerca il pezzo raro, la variante strana, lo scolio illuminante, con scettica empiria e grande amore dello calligrafia.
Per Wilson, che in questo libro utilizza con cognizione diretta più di trecento codici, la filologia astratta dalla militanza paleografica e dalla concreta lettura dei libri antichi è privata del suo principio essenziale, che è empirico. Sorta di oxfordiano Sherlock Holmes, Wilson è un moralista della filologia: la ricerca di oggettività che caratterizza il suo ostinato metodo induttivo gli vieta il piacere dell'ipotesi ardita e abbatte a priori ogni costruzione storicistica nella convinzione dell'arbitrarietà delle teorie. Se la filologia è un'etica, della paleografia vi è d’altronde un'estetica. La vita del cercatore di manoscritti che peregrina da un monastero greco agli stacks di qualche biblioteca americana, è riscattata dalla contemplazione della grafia e dall'ascolto della lingua greca. In quest'immersione nei testi Wilson persegue l'intimità atemporale se non l'identificazione con i propri antecessori, i segreti visitatori bizantini dei classici, gli innumerevoli dotti noti e ignori che li glossarono, annotarono, corressero e che tuttora discretamente li abitano nelle annotazioni, marginali, negli scòli, nelle varianti e congetture riaffioranti a fianco del loro nome entro gli apparati critici. Nella lotta ingaggiata contro ogni fabulazione intellettualistica Wilson esplora a fondo ciascuna delle principali menti erudite bizantine, di cui parla e sparla come fosse un contemporaneo. Nelle sue pagine esse acquistano contorni di tormentata verità - non à facile sparlare dei propri modelli - ed una nuova luce storica: Fozio faustiano e erasmiano recluso nell'oasi atticista del patriarcato; il platonico o vanesio bibliofilo Arata; Costantino Porfirogenito, l'enciclopedista; l'esoterico Psello; il tendenzioso Tzetze; il prolifico Eustazio. Attraverso l’esilio di uomini e scuole seguito alla quarta crociata (vera rovina dell’impero, Bisanzio cadde per mano veneziana prima che turca) l'indagine approda ai grandi filologi umanisti della corte paleologa: Massimo Planude, monaco, poeta, matematico, intellettuale organico che promosse il revival ai Plutarco; Demetrio Triclinio, il mitico «primo autentico critico del medioevo», il grande editore del teatro antico.
Il nesso tra filologia e poesia non è casuale né labile, come hanno dimostrato gli studi sulla cultura alessandrina. Ossessionati dalla tradizione, dalla «biblioteca», gli intellettuali di Bisanzio condivisero la sindrome di Callimaco, insieme poeta e bibliotecario del Museo di Alessandria. Giorgio di Pisidia e Leone il Filosofo, Giovanni Mauropode e Michele Coniate: tutti i nomi dei filologi bizantini che si succedono nel libro di Wilson sono anche nomi di poeti, seguaci di una versificazione colta e riflessa, ma anche per questo moderna. Una cultura soverchiata dal peso della tradizione e dalla certezza che «tutto è già stato detto» non è d'altronde per questo decadente. Se la letteratura bizantina viene ancora considerata tale è in virtù di un pregiudizio non basato sui fatti, ai quali invece richiama l'empirismo degli studiosi della categoria di Wilson: intellettuali inattuali che percorrendo le biblioteche, confrontando i codici e preparando le edizioni l'hanno resa accessibile ai lettori moderni.