Che malattia! Si muore di iperciviltà
Come finisce una civiltà? Può tramontare a causa del suo stesso progresso? I precedenti ci sono, e tutti illustri: Atene, Roma, Bisanzio.
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All'inizio del quarto decennio del sesto secolo, Costantinopoli, un milione di abitanti, capitale del più tecnocratico fra gli imperi antichi, era stupefatta da alcune bande di giovani che si facevano chiamare "azzurri". «Essi non si tagliavano i capelli come gli altri Romèi, né si radevano barba e baffi, volendoli sempre più lunghi, alla maniera dei Persiani; scorciavano i capelli fino alle tempie, sul davanti, mentre dietro li lasciavano crescere più lunghi che potevano: senza alcun senso», nota lo storico Procopio, «e secondo quella che essi stessi chiamavano "la moda unna"». Organizzavano attentati notturni; aggredivano, derubavano, talvolta uccidevano. «Di notte, quasi tutti portavano armi dichiaratamente; di giorno tenevano al fianco uno stiletto a due punte nascosto sotto il mantello; si radunavano in gruppi al calar della sera».
"Azzurra" era l'aristocrazia della capitale; si opponeva alla "verde maestà" della fazione avversa, ed entrambe si opponevano all’imperatore Giustiniano. Si ricorda un episodio tipico. Eccolo: nell'ippodromo di Costantinopoli (locus amoenus deH’assemblearismo bizantino), l'imperatore è atteso, è in ritardo; gli azzurri raggiungono i palchi dei verdi, scandiscono: «Licenza d'incendio nessun verde in giro». I verdi si riversano al centro dello stadio e danno inizio al lancio delle pietre: «Licenza d'incendio nessun azzurro in giro». Seguirà, nella notte, una spedizione punitiva anti-azzurra. E' un sabato di novembre del 561.
La popolazione della "metropoli più organizzata della civiltà occidentale" annoverava migliaia di funzionari in un sistema burocratico perfetto. La corte di Costantinopoli governava con i suoi ministeri un territorio di regioni slave e latine, arabe e africane. L'eparco (il sindaco) di Costantinopoli dirigeva un efficiente corpo di polizia urbana; esso controllava strade in cui c'è stato di tutto: corteggi di bambine porfirogenite e pirati saraceni, mercanti arabi di uccelli e mercanti cinesi di sete, paggi bulgari e pedagoghi russi, asceti persiani e trovatori provenzali, poeti georgiani e cenobiti irlandesi, eunuchi africani e sbigottiti vescovi latini. E poi fachiri, elefanti, giocolieri, migliaia di ladri, milioni di abitanti sempre pronti alla rivolta incendiaria come alla messa cantata. La "moda unna" dei giovani azzurri avrebbe ucciso di lì a poco quarantamila cittadini di Costantinopoli: rivolta "Nika”, anno 532, trentamila morti nel solo ippodromo.
Cento anni prima, nel marzo del 415, per le vie di Alessandria, la rivoluzione culturale guidata da un gruppo di monaci aveva fatto in pezzi e poi dato alle fiamme il cadavere di Ipazia, figlia di Teone Matematico. Dalla contestazione filosofica al linciaggio. E Ipazia fu massacrata a colpi di bastone, nel nome del patriarca Cirillo. Questi era, all’epoca, il primate dell’Africa cristiana: addestrava i quadri di una colta élite teologica alla guerriglia incendiaria, purché tutto il mondo ammettesse il figlio del dio dei Romèi partecipe di una natura indivisibile. Ipazia dirigeva la massima accademia filosofica dell’età tardoantica, e cioè la scuola neoplatonica di Alessandria, che ebbe fra i suoi allievi uomini come Plotino e Sinesio. Alessandria faceva allora parte dell’impero di Bisanzio, che in futuro avrebbe esteso la sua influenza dalla Spagna al Caucaso, dal Mare del Nord al Mar della Cina. Essa era da settecento anni il centro di innovazione culturale del bacino mediterraneo; la sua biblioteca ospitava i libri di tutte le sapienze conosciute. Si manifestavano i segni di una sindrome detta "autodistruzione da iperciviltà”.
Pressappoco nello stesso periodo, ma alcune migliaia di chilometri più a nord, nella pianura suburbana detta del Gymnasion, Antiochia, "città del benessere”, ospitava il grande festival dei dissidenti meleziani. Esso radunava centinaia di accampati (i "campenses” di Girolamo) in un sit-in che durò settimane; il programma prevedeva canti, marce, comizi e gli interventi carismatici degli eremiti siriaci e persiani calati dalle grotte del Silpio e dal massiccio calcareo di Aleppo. Si protestava digiunando: contro l’imperatore, contro la chiesa, soprattutto contro Tryphè, la divinità del comfort che veniva glorificata nei mosaici delle case borghesi: sotto i portici di Antiochia (quasi trenta chilometri) il più grande mercato orientale dell’impero viveva anche di notte, grazie a un sistema d'illuminazione "famoso in tutta l'ecumene”; il rigore laico delle sue scuole attirava gli aspiranti tecnocrati di Roma come quelli di Cappadocia.
La vocazione dell’iperciviltà bizantina all’autodistruzione di massa non era esaurita dall’assemblearismo e neppure dal gusto della mobilitazione permanente. Il movimento ascetico fu un immenso suicidio collettivo: già dal terzo secolo l’area creativa del dissenso sapeva esprimersi nella licenza programmatica delle manifestazioni individuali. Da Milano all’Eufrate accanto a Tryphè si adorava Anachòresis, il suo inscindibile contrario, letteralmente: "Fuga dal Mondo Civile”. Oltre a una tecnologia che trasmise all’occidente il telegrafo ottico e il calendario gregoriano, la scienza strategica e quella filologica, l’arte navale e l'arte diplomatica, l’industria tessile e l'industria libraria, il benessere bizantino produsse per undici secoli un esercito di monachòi, "individui isolati”, per scelta, tanto dal contratto sociale quanto da quello ecclesiastico.
Antonio per primo passò la sponda del fiume che divideva i vivi dai morti e si ritirò nello sterminato cimitero egizio sul Nilo, seguito poi da migliaia di coloni della ricca pianura. Le divinità zoomorfe affrescate sulle pareti interne di quelle tombe gli procurarono obliqui incontri demoniaci che hanno raggiunto le Fiandre di Bosch. Le sue tracce furono rivisitate nel quarto secolo dalla carovana senatoria di Girolamo e delle sue dame, già pallide di celebrati digiuni nelle ville multicrome dell'Aventino. Si dice che i coccodrilli e i leoni sorridessero a chi calava il secchio nel pozzo più lontano dalla propria tenda, e Palladio narra come ”il deserto, una città” s’incrociasse di quelle sfide.
Sulle colline di Gabala, Talelaio ("Olivo in Fiore”) vive sospeso in una botte alta un metro e mezzo e larga la metà, mentre Giacomo, l’uomo bianco, si lascia seppellire dalla neve. La spirale di un cunicolo scavato nella pietra assicura ai murati del massiccio di Aleppo la stessa brezza siriaca respirata dal loro arrogante cronista Teodoreto di Kyrrhos, e lodata per le sue virtù dai ricchi albergatori di Dafni. Il peso della tradizione gravava le spalle dell'intellettuale antiocheno, che a quindici anni recitava a memoria migliaia di versi epici, come quelle del giovane di Osroene che sopportava cento venti chili di catene di ferro ("gli astri", per l’omonimia di quel metallo ai corpi celesti). Le proprie, quelle del maestro, quelle del maestro del maestro.
In Palestina parlavano col sole; al suo sparire tra le dune, mangiavano alcune foglie d’insalata. "Il dattero morso e sputato”, "il pane inverso del ragno", "il formaggio lunare" nutrivano lunghe vite di moròi, i pazzi volontari del mondo bizantino e poi russo; ma Simeone di Emesa, "un paradosso vivente”, dopo aver fatto del deserto una città seppe fare della città un deserto dove scuoteva lunghe trecce di piccoli salami; l’epico- fantastico dei suoi gesti fu canonizzato nella cadenza colta di Leonzio.
Centinaia di vocazioni teatrali culminarono in cima a una colonna: quasi venti metri di altezza quella di Simeone Stilita (396459). Immobile mimo, vi digiunò trent’anni; ai suoi piedi la folla e, per una volta, nelle sue mani le sorti di un intero concilio teologico, quello efesino del 431. Incombeva sul Bosforo, ancora più alta, la colonna di Daniele. L’elaborazione letteraria dello stilitismo va da Sofronio di Gerusalemme, nell’Antologia Palatina (I, 99), a Franz Kafka.
Le sorti di una ricca famiglia bizantina del quarto secolo offrono una buona stratigrafia delle forme aristocratiche del dissenso. Siamo in Cappadocia, terra di boschi e briganti, tra le cui rupi l’imperatore Giuliano l’Apostata trascorse un’adolescenza malata leggendo Platone; le pareti delle grandi ville patrizie che fiorivano di peschi e acquari erano decorate di scritte filosofiche. Macrina, figlia primogenita, "faceva del giorno una notte e della vita un digiuno. Il pensiero di Ori gene, l’ideologo della filologia alessandrina, è stato salvato alla cultura occidentale dal secondogenito: nel suo rifugio rupestre il giovane Basilio, che sarà il più grande operatore culturale dell’epoca, ne lesse tutta l’opera prima che fosse smembrata dall’inquisizione ecclesiastica. Di dieci anni più giovane Gregorio di Nissa, il massimo filosofo e teologo di Bisanzio. Si rese famoso, allora, per la singolarità del suo comportamento e per il greco stupendo nel quale seppe darne ragione.
Ma il più irregolare dei fratelli cappadoci fu Naucrazio dei Boschi; a ventidue anni coltissimo e "l’uomo più bello, il più elegante di Cappadocia", conobbe una diversa forma di tedio; così, accompagnato dal famulus Crisafio, si ritirò nella foresta sconosciuta lungo il fiume Iris, dove visse per cinque anni praticando con le sue mani la caccia selvatica, "quella della sopravvivenza più che quella del codice cortese”. I vecchi dei boschi lo trovarono morto nel folto degli alberi assieme a Crisafio: misteriosamente e senza una ferita. Aveva ventisette anni; fu ucciso, si dice, dal dio Pan.
L’umbra vitae di Naucrazio è la forma estrema dell’estetico quotidiano dei Romèi. Il Corno d’Oro dell’occidente, conficcato nella civile babilonia delle sapienze orientali, è stato per un millennio ombroso ermeneuta del loro linguaggio. Fu così che tutto, a Bisanzio, divenne linguaggio, segno, gesto, habitus: "Vedere, vedere, vedere". Due massime esprimono questo principio, l’una di derivazione evangelica, l'altra platonica: e "non importa se non sanno leggere, basta che essi vedano”; "l’abito individuale è il debito che la persona paga al cosmo". Una terza "divinità" si affianca a Tryphè e Ana chòresis sull’altare dell’iperciviltà dei Romèi: Esthema, l’abito.
II dissenso bizantino ha trovato nel l'esthema la sua espressione tipica. Quando i giovani azzurri di "Nika" applicarono la moda unna anche all'abito. Procopio si scandalizzò: « La parte della veste che cingeva il polso era allacciata strettissimamente, slargandosi in misura sempre maggiore fino all'enorme sbuffo delle spalle; quando agitavano le braccia nei teatri o nell’ippodromo, sia che gridassero, sia che incitassero i loro favoriti, questa parte dell'abito si gonfiava a dismisura, tanto che gli stolti pensavano che il loro fisico fosse tanto atletico e muscoloso da aver bisogno di una foggia consimile perché le vesti vi si adattassero; non comprendevano che invece un taglio tanto ampio e sbuffato rivelava la gracilità assai più che la robustezza delle loro membra. E i mantelli, e i calzoni, e soprattutto le scarpe, erano unni nel nome e nella foggia». Le conseguenze, lamenta Procopio, furono gravissime: l’intera città, «non volendo morire per amore del bello», prese a vestirsi di stracci. L'abito era misura di un'ideologia politica, di un parere culturale, di un credo mistico, un tazebao. Un'intolleranza inversa a quella di Pro copio traspare dal copricapo proprio di foggia turca di Teodoro Metochite, "meraviglia" barocca tra i famosi cappelli bizantini: contemporaneo di Dante, era un altissimo dignitario proprio negli anni in cui i Turchi forzavano 1 confini dell'impero.
Nelle loro gite in barca sul Bosforo, quando l'impero non era più nulla, le dame paleologhe indossavano abiti confezionati sui modelli delle corti più ostili, giustapponevano le diverse fogge nazionali, un esotismo gelido che nasceva al tavolino di geniali sarti rabbiosi. I visionari dell’estrema accanita filosofia bizantina, intervenuti dal 1438 al concilio teologico occidentale, apparivano agli ospiti "variopinti come farfalle ". Lasciarono il segno nelle cronache dell’epoca. Da Platone a Pletone: ma Giorgio Geminato Pletone, mistico laico, l'ultimo intellettuale pletonico di Bisanzio, abbandonò, poco dopo, "quelle assemblee tribali".
Il mito bizantino dell’imperatore-mago (gli esempi sono innumerevoli) è stato decifrato solo in un impero simile a quello di Costantinopoli: il Rodolfo d'Asburgo di Grillparzer e il Sigismund di Hofmannsthal ne rispecchiano i tratti meglio di quanto abbiano saputo fare gli umanisti occidentali. Quando Francesco Petrarca abbandonò lo studio del greco, a Costantinopoli la scolastica latina, tradotta e commentata, animava le Blacherne; le principesse porfirogenite parlavano allora il greco più puro; la regina poteva venire dalla Provenza come dall'Asia centrale. La magia può essere ordine culturale, ma sicuramente non dove un "sistema ad alta propulsione razionale" vive di una millenaria attitudine tecnico-speculativa: allora, è dissenso latente. Cosi, e per decreto imperiale, ogni magia era bandita a Bisanzio. Eppure Fozio (il patriarca intransigente che volle lo scisma delle chiese, il critico letterario che decideva la politica del governo) venne accusato di mormorare versi ellenistici, anziché le formule del rito cristiano, davanti all’eucarestia. Uomini come questo erano icone del potere incarnato, erano gli eletti al rito dell'autocontestazione latente ("nota tenuta" per mille anni). La vocazione politica bizantina era sofisticata come un ossimoro, che è tra tutti il più improbabile degli strumenti della retorica.