Paleologo nel circo dei media (e delle guerre di religione)
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Sbagliando si impara: così comincia l'articolo dedicato domenica scorsa da Maurizio Ferraris a Manuele II Paleologo, "assurto nel 2006 a modello dell'incapacità di dialogo tra le diverse fedi". Un malinteso di cui non è responsabile Ferraris, ma da un lato la soverchiante erudizione che ha indotto Benedetto XVI a citarlo a Ratisbona, dall'altro l'interpretazione distorta dei media.
Si sa, il meccanismo mediatico è come il telefono senza fili: alla fine, il messaggio che passa è l'esatto opposto di quello originario. Nel 2007 sarà bene chiarire che non parliamo del fanatico affossatore di "un impero da operetta", come lo descrive Ferraris, ma del più lungimirante sovrano della Rinascenza Paleologa, se non forse di tutto il millennio bizantino.
L'opera di Manuele II cui il Papa ha attinto è già di per sé un dialogo interconfessionale. È il settimo di ben ventisei Dialoghi tra un cristiano e un musulmano, il cui testo greco è pubblicato in versione integrale nell'edizione critica tedesca di Trapp. Il Papa, tedesco e fluente in greco, ha tuttavia citato l'edizione francese di Khoury, Entretiens avec un musulman, del solo settimo dialogo: il più polemico, ma sempre nel contesto di un genere retorico in nessun modo riducibile a cieca intolleranza. L'interlocutore del basileus era il dotto "Mutarris", direttore di una madrassa. È Manuele stesso a dirci che "non si compiaceva della discordia" ed era anzi "eugnomon", cioè non solo saggio, ma "di retta opinione".
Certo, l'imperatore critica in modo aperto l'islam. Era un accorto Realpolitiker, stava trattando con l'Occidente perché organizzasse una crociata in difesa del suo impero dai turchi. E la sua durezza rientra molto più nella tradizione controversistica latina che in quella teologica bizantina: tant'è vero che le parole citate da Benedetto XVI a sua volta Manuele II le citava dal Contra legem Sarracenorum di un domenicano, Ricoldo da Montecroce. Mentre la dottrina di Bisanzio sull'islam la esprime Giovanni Damasceno, vissuto nel califfato islamico in un regime di piena tolleranza per i cristiani. Il grande padre della chiesa considerava quella maomettana un'eresia cristiana, accostabile al nestorianesimo: come ribadito dai teologi greci e ripreso dall'umanesimo filellenico di Pio II e Nicola Cusano.
A lungo vissuto a contatto col sultano turco, Manuele II fu l'espressione di una minoranza spregiudicata che seppe superare i rancori, in molti casi più vivi di quelli antislamici, che i bizantini nutrivano verso i cattolici latini. Il suo vero problema interconfessionale era con la chiesa romana postscismatica. Era in un'atmosfera di sincretismo, dove il neoplatonico Giorgio Gemisto Pletone poteva passare per il Secondo Maometto, che l'imperatore volle scommettere su Roma. Ma non certo disconoscendo una lunga osmosi con l'islam. Come del resto la maggior parte dei suoi sudditi, che infatti preferirono, come si diceva allora a Costantinopoli, "il turbante turco alla tiara latina".
Altro che "complesso del Paleologo". Quella che circonda Manuele II e il suo millenario impero è una civiltà la cui scomparsa ha privato l'Occidente proprio di quella mediazione che il dialogo tra Manuele Paleologo e il direttore della madrassa di Ankara rappresenta, e che la nostra civiltà continuerà a far fatica a riallacciare, se non si decide, a forza di sbagli, a imparare la storia.
Silvia Ronchey
Lettera di Maurizio Ferraris
«Al trono i Paleologi arrivarono con la violenza e col tradimento ... Mantennero il potere per 192 anni, e ciò appare quasi un miracolo, ove si pensi ... alla mediocrità di quasi tutti i principi della dinastia ... alle interminabili e meschine lotte che scoppiarono tra loro per l'esercizio del potere e alle scarse risorse in uomini e denaro dell'impero». Così l'Enciclopedia Treccani, alla voce "Paleologi". Detto questo, sarebbe ridicolo, da parte mia, pretendere di competere con Silvia Ronchey in fatto di storia bizantina.
Manuele era un Realpolitiker, certo: al punto che cercò di convincere un po' tutti i re europei a venirgli in soccorso, non riuscendoci. Era anche un po' un imbroglione, per esempio quando sostenne un falso pretendente contro il sultano legittimo Murad II, che lo sconfisse, cinse d'assedio Costantinopoli, e lo tolse solo dopo essersi preso un sacco di soldi. Lingua biforcuta, dunque, non solo "dialogo interreligioso". Alla fine, è questo che hanno rimproverato i turchi a Manuele e ai due tra i suoi figli che sono stati gli ultimi imperatori di quello che, torno a dirlo, era un impero da operetta (sei città in tutto, divise tra i figli del Paleologo: vi pare un impero?). Come poi il Sacro Romano Impero ai tempi di Voltaire: né sacro, né romano, né impero.
Comunque, veniamo alla frase strumentalizzata dal circo dei media. Nell'inverno 1391-92 o 1390-91 il Paleologo si trova ad Ankara. Sta combattendo come vassallo del sultano Bajazet una guerra non sua. Qui hanno luogo i 26 colloqui col professore persiano. Nel settimo, si confrontano le tre "vie" di Mosè, Gesù e Maometto. Ed è qui che, insieme a tante cose giudiziose (per esempio, «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio»), il Paleologo dice: «Mostrami ciò che Maometto ha portato di nuovo e vi troverai solo delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva a diffondere la fede per mezzo della spada».
I dialoghi sono pubblicati nel 1966 e restano nelle biblioteche, a beneficio degli studiosi. Passano quarant'anni, e quando la tensione tra il mondo cristiano e quello islamico è al culmine, quando gli integralismi e le guerre di religione occupano il gran teatro del mondo, altro che il gran circo dei media, e quando di lì a poco sarebbe dovuto andare proprio a Istambul, il Papa crede bene di citare quella frase.
Dico, non poteva citare quell'altra sull'agire secondo ragione? Oppure questa, dannatamente relativistica: «Perché non tutto conviene a tutti, in ogni tempo e in ogni circostanza?». Sarà stato vittima della sua "soverchiante erudizione", come suggerisce Silvia Ronchey, quasi supponendo che il Papa, che vive di e nei media, ne ignori i meccanismi? Non ne sono sicuro. A me sembra piuttosto un quasi-lapsus come quello del suo predecessore, che rivolgendosi agli ebrei della comunità di Roma, durante la famosa visita dell'aprile 1986, come ai «nostri fratelli maggiori» fece propria la profezia biblica ricordata da San Paolo (Romani 9, 12): «Il maggiore sarà sottoposto al minore».
Quanto al complesso del Paleologo, dar la colpa al turco di quello che ha fatto il franco, mi sembra che ne abbiamo infinite testimonianze. Per restare alle ultimissime, sul «New York Times» del 3 gennaio Thomas Friedman sosteneva che l'esecuzione di Saddam prova che gli iracheni esprimono solo tribalità e sono impermeabili alla democrazia. Come se i franchi del Comandante Supremo Bush e la loro "giustizia infinita" non c'entrassero per niente e fosse tutta una resa dei conti fra i turchi. Non vogliamo chiamarlo «complesso del Paleologo»? vogliamo chiamarlo, invece, «coda di paglia»? Per me va benissimo.