Dalla Turchia con splendore
Mostra al Quirinale. Così le culture anatoliche hanno contribuito alla civiltà europea. Settemila anni di storia, dal Neolitico agli Ittiti all’Impero ottomano, con una strana dimenticanza: gli undici secoli dell’età bizantina
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“Antica mano ingioiellata che l’Asia protende verso l’Europa”, il tollerante impero ottomano derivava da Bisanzio la sua multietnica, sfaccettata, rutilante estetica, il suo cosmopolitismo, la sua capacità di mescolare fra loro le tante e diverse tradizioni asiatiche, e queste con quelle europee; insomma, il suo farsi crocevia e via di transito di civiltà, così ben rispecchiato negli oggetti di importazione sia asiatica sia occidentale - l’incensiere di giada Ming, ma anche la brocca borgognona di cristallo di rocca, il bacile di diamanti e smalto dell’ambasciatore d’Asburgo, il medaglione dei fratelli Donizetti, con su incisa una viola del pensiero - esposti nella piccola e peraltro magnifica mostra sulla Turchia che si apre oggi al Quirinale: a ridosso della visita di stato del presidente della repubblica turca Sezer nonché in piena discussione sull’ingresso della Turchia in Europa. Difatti nei loro messaggi inaugurali entrambi i capi di stato hanno sottolineato la volontà di reciproca collaborazione nell’ambito del ruolo esercitato dalla Turchia – ed è questo anche il senso della mostra – quale portatrice e mediatrice di civiltà nella storia del Mediterraneo. In effetti, alla nascita e allo sviluppo della nostra civiltà le terre anatoliche hanno partecipato grandemente fin dagli evi più antichi. E non parliamo solo dell’Anatolia preclassica, di cui è grande esperto Louis Godart, Consigliere del Quirinale per la Conservazione del Patrimonio Artistico nonché organizzatore della mostra. Parliamo anche, e forse da un punto di vista geopolitico soprattutto, “delle civiltà ispirate alle culture classiche, ossia a quella greca e a quella latina, che per secoli sono fiorite in quelle terre”, come Godart stesso ha detto, pronunciandosi sull’opportunità di considerare la Turchia parte effettiva dell’Europa.
Ora, se con questa definizione si intendono non solo le monarchie ellenistico-romane, ma anche gli undici secoli dell’impero cristiano dei “romèi”, che presidiando quell’istmo cruciale hanno guidato il medioevo mediterraneo sospingendo l’Europa verso il rinascimento, sarebbe stato opportuno che la mostra del Quirinale sviluppasse maggiormente i temi del rapporto con l’eredità “romana”, quello che maggiormente avvicina la Turchia all’Europa. Due soli pezzi bizantini, invece, nell’intera, preziosa mostra: l’icona marmorea di Sant’Eudossia, proveniente da quella che viene chiamata nel cartiglio la moschea di Fenari-Isa Camii, e un medaglione da collo. “Non è per penalizzare Bisanzio”, sorride Godart, “ma per motivi di spazio”.
Fortuna, in effetti, che c’è Godart. Se infatti è vero che la storia non è mai oggettiva, ma per forza di cose soggetta al presente e funzionale alle sue diplomazie, l’unico elemento che ha consentito alla mostra di evidenziare la radice comune tra la nostra civiltà e il mondo turco è stata l’abilità dell’archeologo nel concentrare l’attenzione “sui primi contadini della storia, che inventarono l’agricoltura nella piana di Konya”: sull’età neolitica, su quella del bronzo, su quella assira e perfino ittita e neo-ittita. Tra statuette della Madre Terra, sistri e dischi solari, idoli assiri, iscrizioni ittite, monili urartu, il visitatore affascinato non noterà certo la quasi rimozione dalla storia anatolica degli undici secoli di Bisanzio.
Sfolgorano invece, a ragione, le meravigliose ceramiche Isnik, e poi le multiformi coppe e caraffe, lampade e lanterne, gli specchi tempestati di gemme, le scintillanti tabacchiere, i pennacchi multicolori, i gioielli del tesoro del Topkapi. E soprattutto uno splendido, raggiante Corano incrostato d’oro e tempestato di turchesi, smeraldi e rubini. “Una delicatezza e sofisticazione artistica che contrasta con la primitività con cui oggi viene a volte invocato quel libro”, secondo gli organizzatori della mostra, che lo hanno quasi eletto a suo simbolo.
Ma quella ricchezza artistica, quella sofisticazione culturale, non vengono dal nulla. Lo stato turco rivaluterà l’importanza dell’eredità bizantina? riconoscerà che anche lì sono le sue radici, in quella formidabile alleanza di cultura politico-amministrativa romana e tradizione filosofica ellenica, capace di assimilare e assorbire le culture orientali e di analgamarle a una stessa civiltà garantendo la convivenza delle etnie e anche delle religioni e confessioni? restituirà ciò che deve al glorioso passato rappresentato anche dalla tradizione greca del Fanario e dal Patriarcato Ecumenico Ortodosso? riaprirà l’antica scuola teologica della Halki? Sappiamo bene che è proprio in quell’istmo tra Europa e mondo islamico che si giocheranno i destini politici del terzo millennio, là dove le faglie di attrito fra etnie stanno secondo alcuni preparando un catastrofico scontro di civiltà.
Ha la forma di un fiore a sei petali. Il pennacchio decorato con oro e rubini è lavorato con la tecnica a sbalzo e con l’incisione. La parte superiore del manico è decorata da fiori. La parte interna delle foglie che formano il corpo del pennacchio è ornata dai rubini applicati nei castoni. Due catene, con ganci ai bordi, sono saldate al corpo, per consentire al pennacchio di mantenersi dritto sopra il turbante. Infatti, i pennacchi che si trovano, come questo esposto alla mostra del Quirinale, nella collezione del Museo delle Arti Turche e Islamiche di Istanbul appartenevano a sultani, a principi o a membri della dinastia imperiale ottomana. Quando un membro della dinastia moriva, anche il suo pennacchio lo seguiva nel suo mausoleo. L’esemplare esposto, del XVII secolo, proveniva in origine dal mausoleo türbe del sultano Ahmet I, anche se non si sa di preciso a quale membro della dinastia appartenesse.