Cantami, o diva la vacanza lontano dall'ego
In origine era solo un’aspra regione della Grecia. Poi l’Arcadia è diventata un non luogo letterario che, da Virgilio a Cormac McCarthy, rappresenta il nostro tentativo di connessione interiore. La vera meta di ogni estate
“Et in Arcadia ego”. “In Arcadia anch’io”. Questa frase famosa, un po’ misteriosa, risale in origine a un dipinto del Guercino in cui due giovani pastori scoprono tra gli alberi un grande teschio assediato da un topo, da un verme e da un moscone, poggiato su un tumulo di pietra dov’è incisa la scritta. Che è stata variamente interpretata e traslata nella letteratura (da Goethe a Panofsky, da Emilio Cecchi a Nabokov, Waugh, Faulkner, Cormack McCarthy) e nella cultura popolare (dal rock al fantasy, dalle serie tv ai fumetti ai tatuaggi fino agli anagrammi cristologici o satanici delle sette religiose o occultiste); ma sul cui significato la sintassi latina non lascia dubbi. A parlare è la morte: sono in Arcadia anch’io, sono anche qui. Nel più idilliaco dei luoghi, nel più dolce e ignaro dei modi di vita, prima o poi scoprirete, come il principe Gautama Siddhārta, l’esistenza della morte.
Siamo all’inizio del Seicento e l’allegoria del memento mori non è una novità. Ma lo è la sua ambientazione bucolica, che verrà ripresa poco dopo in un dipinto ancora più noto (soprattutto nella sua seconda versione, quella del Louvre), di Nicolas Poussin, dove tre efebici pastori, seminudi nei drappeggi delle sommarie vesti, i riccioli cinti di edera, affiancati da una figura femminile forse allegorica (che sia proprio lei, la morte?), decifrano la stessa scritta su una lastra sepolcrale eretta in una radura dello stesso paesaggio. E questo paesaggio è, dunque, l’Arcadia.
Ma che cos’è l’Arcadia? O, meglio, che cos’era? In origine, una delle regioni più isolate, arretrate e primitive della Grecia. Lontana da quelle coste, da cui i greci salpando trassero il loro multiforme ingegno di traffici e saperi, chiusa nella gola di monti e boschi del cuore del Peloponneso, con un clima aspro, avverso all'agricoltura, e la pastorizia come unica risorsa, a malapena l’Arcadia entra nella storia della civiltà ellenica: pochi esametri in Omero (sì, anche un piccolo contingente di arcadi partecipò alla guerra di Troia, peraltro a spese di Agamennone), una vicenda mitologica in cui l’eroe fondatore, Arcade, è un orso: frutto degli amori clandestini di Zeus e della ninfa Callisto trasformata prima in orsa, poi, insieme al figlio, in costellazione (sì, sono loro due Ursa Maior e Ursa minor, come Filelfo nell’Assemblea degli animali ha ricordato). Così remota, così marginale, l’enclave arcadica, che un grande linguista, Giacomo Devoto, basò sulla parlata arcade del suo tempo la teoria detta delle aree marginali: proprio a causa dell’isolamento quell’area linguistica aveva preservato elementi preziosi del dialetto arcado-cipriota che si supponeva derivato in linea diretta dal miceneo.
L’Arcadia, in altre parole, era un primitivo e primigenio non luogo, vuoto di cultura, dominato dalla natura e dal suo dio Pan dal flauto incantatore e dallo zoccolo caprino; Pan, dio dell’unione col tutto, come dice la parola, ma anche, altrettanto etimologicamente, dio del panico. Ora, proprio questo era piaciuto a quei poetae docti, a quegli intellettuali dell’età ellenistica e romana che nell’avanzare della civiltà antica avrebbero inventato la poesia bucolica usando l’utopia pastorale come reazione al progresso, all’ipercivile mondo urbano, che si trattasse di quello di Alessandria, cui era approdato il dotto siceliota Teocrito, o della Roma postrivoluzionaria del principato augusteo, in cui dalle pianure di Mantova l’altrettanto cerebrale Virgilio era arrivato a farsi primo poeta di regime. Negli Idilli del primo, nelle Ecloghe (o Bucoliche) del secondo la celebrazione del mondo naturale si trasforma in un sofisticato gioco intellettuale e letterario, pieno di allusioni e doppi sensi, ma indubitabilmente pastorale. E anche se l’ambientazione è prevalentemente siciliana o padana, la parola Arcadia affiora qualche volta — non molte — dai versi. Quanto basta perché quel non luogo, quel vuoto di civiltà e cultura, quell’idillico o panico plenum di natura cui si dà nome Arcadia diventi insieme un topos poetico e un luogo del mito, e con ciò uno stato dell’anima, una dimensione della psiche, un archetipo.
Nella trasfusione di anima dal mondo antico al rinascimento, quel luogo interiore non poteva sfuggire al malinconico intuito di Lorenzo il Magnifico. La sua rievocazione nei versi del Trionfo di Bacco e Arianna coincide col materializzarsi alla corte dei Medici del vero e proprio mito dell’Arcadia: nel poema così intitolato di Jacopo da Sannazzaro, con cui l’Arcadia in quanto tale — non più il generico pastiche bucolico di Teocrito e Virgilio, ai quali comunque si ispira — diventa un nome-mantra , la parola d’ordine di una nuova corrente intellettuale dove l’ideale della cultura è posto fuori dalla società e che dalle corti del Cinque e Seicento contagia tutta l’Europa occidentale, da Lope de Vega e Tirso de Molina a Milton e Ronsard (e anche la Grecia, stando ai nuovi, illuminanti studi di Gerasimos Zoras). Come nella tarda antichità il genere bucolico era reazione (anche in senso politico, nel caso di Virgilio) alla perdita di contatto con l’origine, nell’età barocca diventa una bandiera culturale (e altrettanto politica) “per romper guerra alle gonfiezze del secolo”. Con la fondazione dell’Accademia dell’Arcadia a Roma, nell’ambiente di Cristina di Svezia, i nuovi arcadi si costituiscono in una “democrazia” e si riuniscono nel Bosco Parrasio, una villa alle pendici del Gianicolo; la loro insegna è la siringa di Pan; ad assumere il nome pastorale saranno intellettuali come Goldoni (Polisseno Fegeio), Goethe (Megalio Melpomenio), Macpherson (Alidauro Oleneso), ma anche Vico, Parini, Alfieri, Monti, Belli, Leopardi, Manzoni. Il nome Arcadia ha completato la sua migrazione semantica: non è più un luogo geografico, neppure un luogo fisico. E a questo punto riacquista la sua originaria valenza di non luogo, di ou-topos, dunque di utopia. Dall’ Et tu in Arcadia di Stevenson al Song of the Last Arcadian di Yeats, dall’ Et in Arcadia ego di Auden all’ In Arcadia di Durrell all’ En Arcadie di Régnier, ogni appartenenza accademica è dissolta, ognuno cercherà la propria Arcadia. Così noi oggi.
Perché l’Arcadia è, come si diceva, anzitutto un vuoto. Di civiltà, di gerarchia, di convenzione sociale; di alienazione, potremmo aggiungere. Ora, da questa parola, vuoto, in latino vacuum, proviene la parola vacanza. Che noi usiamo spesso indifferentemente, e impropriamente, come sinonimo di ferie (feriae, giorni di feste comandate, come le feriae Augusti, oggi Ferragosto) o di villeggiatura (da villa, trasferimento da una dimora architettonica cittadina a una extraurbana). Se veramente andiamo non in ferie, non in villeggiatura, ma in vacanza, noi andiamo in Arcadia; o, almeno, tentiamo di andarci; cerchiamo, dentro più ancora che fuori di noi, quella gola isolata che ci porta lontani da tutto e ci connette al tutto, nel segno del suo signore Pan. Una connessione atavica, interiore, che coincide con la disconnessione da quello che è il primo male della “gonfiezza del secolo” odierno: l’intossicazione digitale, il narcisismo social. Una libertà pastorale che ci porta a disfarci, se non dell’io, almeno dell’ego, a raggiungere quell’area marginale della psiche che parla il linguaggio primigenio dell’inconscio, dell’es. Et in Arcadia es.