Alessandro Magno. Il ritratto del re.
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Dicono fosse piccolo di statura, di carnagione candida, facile ad arrossire, il collo sempre piegato a sinistra, lo sguardo fisso nel vuoto, come a non volerlo incrociare con gli umani, ma ad inseguire pensieri, o presagi, narra Plutarco, emanati dall’alto del cielo o dal profondo di sé. Suo padre Filippo il Macedone, il conquistatore della Grecia, lo aveva voluto istruito in tutte le discipline della cultura ellenica, la poesia e la filosofia, la botanica e la matematica. Bambino, nella reggia di Pella adorna dei grandi scudi rotondi, Alessandro ripeteva a memoria gli esametri di Omero, i trimetri giambici di Euripide, i ritmi scoscesi delle odi pindariche. Dormiva con l’Iliade sotto il cuscino, si riteneva discendente di Achille e sognava di diventarne attuale erede. La notte prima delle nozze con Filippo sua madre Olimpiade, iniziata come il marito ai misteri di Samotracia, aveva sognato il suo concepimento divino in un colpo di fulmine. Il doppio sogno della madre e del figlio si avverò. Il giovane dallo sguardo assorto diventò il più grande conquistatore della storia e fu venerato come un dio in terra, un faraone, un santo cristiano, un precursore del messia ebraico, un eroe dell’islam.
La letteratura su Alessandro è sconfinata, e non si tratta solo di quella, già immensa, degli storici. Il suo mito sedusse la cultura popolare del mondo antico, medievale e ancora moderno. Il suo Romanzo fu tramandato in ogni lingua e dialetto del divano occidentale-orientale globale, scandito dai cantastorie, recitato nel teatro d’ombre. Dalle rive del Nilo alle steppe dei Tatari, dall’impero di Bisanzio a quello della Cina, oltreché in occidente a partire dall’anno Mille, l’icona di Alessandro-Eskandar, insieme a quelle del Cristo e del Bodhisattva, è la più diffusa della storia umana.
Eppure di quest’icona non conosciamo il vero volto. Alessandro controllava di persona, come tutto, i suoi ritratti ufficiali. Li aveva affidati ai due artisti più grandi del suo tempo, Lisippo e Apelle, che vi esaltarono l’elemento regale, eroico e semidivino, trasmettendolo alla successiva vulgata iconografica. A parte l’immagine stilizzata del mosaico ritrovato a inizio Ottocento nella casa del Fauno a Pompei, dove Alessandro a cavallo, a testa scoperta, insegue Dario nella battaglia di Isso, i ritratti di cui abbiamo copia sono ampiamente ideali, come, oltre a quelli conservati al Louvre, a Monaco, ad Atene, a Istanbul, la testa marmorea del museo di Pella o quella eburnea della tomba di Filippo a Verghina, l’antica capitale della Macedonia.
L’avventura iconografica di Alessandro lo mostrerà via via sempre più divinizzato, nelle monete e nei cammei, nelle raffigurazioni in veste di Eracle o di Zeus o di Ares, e poi anche di Cristo, nei mosaici di Baalbek e nei manoscritti bizantini. Dal mosaico di Otranto al diadema di Kiev, dalle stoffe copte agli arazzi fiamminghi, la storia dell’arte mondiale ci ha consegnato l’ascensione al cielo di un Alessandro Re del Mondo e primo kosmokrator. Le immagini delle sue escursioni fantastiche ai confini dell’universo, su per le sfere eteree, giù per gli abissi marini, scintillano nella Pala d’Oro di San Marco, nelle miniature armene e persiane come nelle illustrazioni francesi e borgognone della sua Cerca. Dell’Alessandro che la prosa di Plutarco ci restituisce, incidendone i tratti accanto a quelli di Cesare nel dittico delle sue Vite parallele, non avevamo, nell’iconografia, alcuna traccia. Fino a oggi.
La scoperta
Fino alla scoperta di cui danno ora notizia due studiosi, Filippo Coarelli e Eugenio Lo Sardo, che hanno ritrovato il più realistico volto di Alessandro proprio vicino a noi, e in una villa che tutto fa pensare appartenuta proprio a Cesare. Il ciclo di affreschi della villa di Boscoreale, presso Pompei, scoperto nel 1900, era rimasto finora un enigma che ha fatto arrovellare senza esito decine di studiosi. Letteralmente un puzzle, visto che gli affreschi erano stati subito smembrati e strappati dalle pareti e, malgrado il parere negativo della commissione ministeriale, legalmente venduti nel 1903 in una pubblica asta a Parigi e dispersi in più musei europei e americani. Nemmeno con le riproduzioni digitali si era riusciti a comprendere a fondo l’insieme e, nonostante i molti studi pubblicati, a decifrare il programma figurativo. Ma, incaricati di preparare una grande mostra su Alessandro Magno per il Museo archeologico nazionale di Napoli (che verrà inaugurata nella primavera del 2023), Coarelli e Lo Sardo sono riusciti a congiungere le tessere e a mostrare con certezza che le pitture dell’ambiente principale di Boscoreale (a nord del peristilio, nel settore urbano della villa) sono una narrazione, ideologicamente elaborata ad uso del committente, della vita di Alessandro, che ha inizio con la magica annunciazione della sua nascita e fine con la conquista dell’Asia e il dominio sul mondo.
La prova
La certezza nasce da un’intuizione di Coarelli. Che lo sfondo narrativo fosse la reggia di Pella era infatti congetturabile, ma non dimostrabile. C’erano vari indizi — gli scudi con le insegne macedoni, ad esempio — ma, si sa, un’indagine scientifica è come un’inchiesta giudiziaria: gli elementi indiziari non bastano, serve una prova. Coarelli l’ha trovata in un oggetto semplice: un bastone, che gli studi precedenti avevano considerato uno scettro, su cui il personaggio seminudo assiso su un trono dorato, nel secondo pannello della parete laterale di destra, appoggia le due mani. La sua gamba sinistra non poggia a terra e mostra un ginocchio stranamente gonfio. Ora, Filippo II era notoriamente, proverbialmente zoppo, come riferiscono le fonti antiche, per una ferita al ginocchio subita in battaglia. E l’esame dello scheletro scoperto nella tomba del re di Macedonia a Verghina lo ha confermato. Se il personaggio seduto in trono è Filippo, il resto della narrazione si fa congrua, e si fa certa l’identità del giovane che nel secondo pannello della parete di fronte, quella di sinistra, chiude il ciclo, seduto in alto, su una roccia, nel lato europeo dell’Ellesponto, colto nell’atto, narrato da Diodoro Siculo, di conficcare la punta della lancia nell’antistante Anatolia, fondando il principio di legittimità del dominio personale dei sovrani ellenistici per diritto di vittoria sulla ‘terra conquistata con la lancia’ (doriktetos chora).
Il suo corredo lo contrassegna come macedone. Ha in capo la kausia, cinta in basso da una fascia più chiara: il diadema. Davanti a lui poggia il tipico scudo rotondo e dorato, con una stella centrale e semicerchi lungo il margine. Tra le mani ha un lunga asta, tecnicamente una sarissa. L’abito che indossa — una tunica grigio chiara, con sopra un mantello viola — ha foggia orientale, e sappiamo che il conquistatore indossò le vesti dei conquistati. Di fronte, più in basso, siede un’opulenta, imponente figura femminile, il capo coperto da un turbante rosso. La veste è ricca, azzurra in alto e giallo oro in basso, e lascia libere le braccia, una delle quali è piegata a sostenere il mento, in un atteggiamento di ipnotico sconforto. E’ la personificazione del continente di cui Alessandro, scagliando la lancia, ha preso simbolicamente possesso. Gli speroni di roccia su cui si trovano le due figure sono separati dalla striscia bluastra che corre tra gli stretti che dividono l’Europa dall’Asia. L’affresco raffigura il momento fatidico in cui Alessandro e l’Asia si guardano. Ma non negli occhi.
L’identikit
Perché lo sguardo di Alessandro è come lo descrive Plutarco: assorto, fisso di traverso nel vuoto. Ed è proprio la malinconia che emana da questa figura efebica, quasi femminea (tanto da avere indotto molti a credere che il personaggio ritratto fosse una donna anziché un uomo), a non averlo fatto immediatamente identificare con l’eroe conquistatore di cui i ritratti ufficiali hanno sublimato i tratti. Questo Alessandro è un ragazzo seduto in riva al mare, pallido, minuto, timido, dimesso. I capelli castani, con la riga in mezzo, sembrano non avere paralleli nella ritrattistica attestata. Ma, confrontando con attenzione il mosaico della casa del Fauno, si constata che molti dati fisiognomici corrispondono: la piega delle labbra, la curva delle sopracciglia, il naso pronunciato, gli occhi, le basette e anche la capigliatura.
Nel pannello immediatamente precedente, il primo del ciclo della parete sinistra, appare una figura solitaria: un vecchio barbuto, con addosso un mantello marrone sopra una tunica più chiara, calzato di quei sandali che si chiamano krepides, in piedi, le gambe incrociate, appoggiato a un bastone nodoso e ricurvo. E’ l’immagine tipica del filosofo. All’anulare sinistro porta un anello, nel cui castone è incisa una lettera, forse una E, o una T. Se il giovane dallo sguardo assorto che siede sulla sponda dei Dardanelli, dinanzi all’Asia sconfitta, è certamente Alessandro, la lettura definitiva di quest’incisione svelerà forse, chissà, l’identikit di un altro volto: quello di Aristotele.
Il maestro nascosto
Alessandro era suo allievo. Fu dopo essere stato a lezione dal massimo filosofo politico della civiltà che aveva inventato la democrazia, invitato dal padre alla corte di Pella per fargli da precettore, che Alessandro si fece sovrano assoluto, introducendo nella politica classica l’idea della monarchia universale. Il padre aveva sottomesso i greci, ai greci il figlio consegnò un mondo più grande. Trafitta dalla lancia che aveva scagliato di là dai Dardanelli, l’Asia gli spalancò il suo grembo. Ne spazzò via i regni come castelli di carte per farsi strada verso infiniti orizzonti. Al mito di Achille si affiancò quello di Eracle. Le sovrumane fatiche che sopportò cambiarono la storia, la geografia, l’immagine stessa che fino ad allora si era avuta del mondo. Soggiogò la Persia di Dario, attraversò la Bactriana, l’Oxiana, la Sogdiana, oggi Afghanistan, Pakistan, Kirghizistan, fino alle montagne del Pamir e del Kashmir, dove per secoli e secoli i capitribù vantarono di perpetuare il suo sangue e dove Kipling ambientò l’avventura di uno dei suoi ultimi seguaci, L’uomo che volle farsi re. Arrivò in India. Con la battaglia dell’Idaspe si assicurò il Punjab e l’imperitura penetrazione di quei lineamenti della cultura filosofica e figurativa greca che avrebbero dato vita ai regni greco-indiani e al sincretismo elleno-buddhista.
Il carro del vincitore percorreva all’inverso la stessa direttrice di quello, guidato da tigri, di Dioniso, il dio al quale Alessandro fu iniziato da sua madre e che dall’India era venuto a insegnare ai greci l’entusiasmo e l’ebbrezza. L’entusiasmo della scoperta e l’ebbrezza della conquista lo avrebbero portato ancora più lontano, non fosse morto all’età che in seguito sarebbe stata attribuita a Cristo, il giovane che come lui fondò un regno senza confini e che secondo alcuni non morì sulla croce, ma uscito dal sepolcro seguì a piedi le sue orme e continuò la predicazione di quel regno fino ai monti del Kashmir.
Achille, Dioniso, Cristo; e la madre Asia. La rotta di Alessandro mise in comunicazione diretta due mondi, quello greco e quello asiatico, che già si parlavano e scambiavano idee e sapienza fin dalla notte dei tempi, ma sotterraneamente, o attraverso tortuosi sentieri. Il suo viaggio segnò invece una via maestra, che fiorì di storie, immagini e canti. Lasciò una scia di ellenismo nella cultura orientale, producendo miracoli come quello dell’arte del Gandhara, ma fece anche il contrario, trascinando a occidente le tradizioni dell’oriente. Acquistò il carisma autocratico che era stato dei monarchi orientali e specialmente di un altro suo eroe ispiratore, Ciro il grande di Persia, ispirando di lì a poi tutti i politici che avrebbero seguito il karma del suo impero. Cesare per primo, che Plutarco gli accosta come l’altra faccia di un’erma.
L’ombra di Cesare
Il terzo volto nascosto nella piccola villa suburbana che va sotto il nome di Publio Fannio Sinistore — ma solo perché costui ne fu l’ultimo proprietario — è quello del committente degli affreschi. Il contesto iconografico che avvolge la narrazione centrale su Alessandro è complesso e misterioso, anzi, propriamente misterico. E’ chiaro il riferimento ai misteri di Samotracia, ai quali si lega la raffigurazione delle nozze regali di Olimpiade e Filippo, che sappiamo da Plutarco precedute da un’iniziazione misterica in forma di matrimonio, e soprattutto quella dionisiaca dei cabiri, gli sconcertanti geni alati dalle orecchie appuntite e i capelli rossi dritti sul capo, figure semidivine sulle quali la tradizione antica ha mantenuto un impenetrabile segreto e delle quali si trova qui la prima immagine certa: si direbbe che fungano da guardiani delle porte, ossia dell’accesso stesso a quei culti, ai quali il proprietario della villa doveva essere affiliato.
Ora, tra i massimi membri della nobilitas romana iniziati ai misteri di Samotracia alla metà del I secolo avanti Cristo — la data cui appartengono gli affreschi — c’è lui, Giulio Cesare. E’ sua, decretano i due studiosi, l’altra faccia dell’erma, suo l’altro volto celato dalla villa, quello del proprietario-committente. Alla sua figura puntano altri riferimenti, sia negli affreschi, anzitutto la figurazione di Venere Genitrice avvolta nell’azzurro della parete di fondo dell’oecus, sia nella struttura stessa dell’intera residenza, che la indica appartenuta non a un provinciale ma a un membro eminente dell’aristocrazia urbana, che la usava per ricevere i clientes: non una grande villa di otium o destinata alla produzione agricola, ma ciò che tecnicamente è chiamato un deversorium. Del resto, quale altro grande personaggio della tarda repubblica era non solo interessato a proporsi “imitatore di Alessandro”, ma stava elaborando ideologicamente e strategicamente, dopo la vittoria su Pompeo, l’incontro con Cleopatra e la nascita di Cesarione, tra il 46, l’anno del grande trionfo, e il 44, l’anno della morte, un “programma orientale” al quale il programma iconografico della villa fa così perfetto riscontro? E del resto chi, se non Cesare, che vi si specchiava, poteva restituirci il vero volto di Alessandro?