Civile? Anche troppo
La seduzione secolare di Costantinopoli-Istanbul, crocevia tra l'Europa e l'Asia
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Intorno alla metà del sesto secolo Costantinopoli, un milione di abitanti, capitale del più grande fra gli antichi imperi di cultura occidentale, era percorsa da bande di giovani che si facevano chiamare "azzurri". Non si tagliavano i capelli come gli altri, non si radevano barba né baffi. Scorciavano i capelli fino alle tempie sul davanti, mentre dietro li lasciavano crescere più lunghi che potevano: senza alcun senso, annota lo storico Procopio, ma secondo quella che veniva chiamata "la moda umana". Quasi tutti portavano armi, provocatoriamente. Si radunavano in gruppi. Organizzavano attentati notturni. Aggredivano, derubavano, a volte uccidevano i passanti della metropoli.
Sembra di sentire parlare di New York, e invece siamo a Bisanzio. E non è un caso che la moneta aurea bizantina, incrollabile nei secoli, sia stata definita dal grande storico americano Peter Brown "il dollaro del medioevo". L'impero di Costantinopoli fu un sistema ad alta propulsione razionale, un "eccesso di civiltà" protratto in un'indefinita decadenza, che però, come diceva Gibbon, coincise con un'infinita prosperità. La tecnologia bizantina trasmise all'occidente il telegrafo ottico e il calendario gregoriano, l'arte navale e la manifattura libraria. Supremazia tecnologica e strategia economica, persuasione politica e disputa religiosa, ideologia di corte e immaginazione popolare si riflettevano a Bisanzio in una produzione dalle molte facce: letteratura, musica, architettura, pittura, tessitura, scultura, oreficeria, decorazione. "New York è un giardino di pietra", aveva annotato Cocteau nel 1936. Anche nelle memorie di Ignazio di Smolensk, uno degli antichi visitatori di Costantinopoli, la Città è "una foresta di pietra", oltreché "una giungla di reliquie”. Colpisce la consonanza delle impressioni dei viaggiatori medievali a Bisanzio con quelle degli scrittori che tra la fine dell'Ottocento e la prima metà di questo secolo visitarono New York. Le cuspidi scintillanti dei palazzi, rivestite di materiali che riflettono la loro luce, "sembrano giganteschi tabernacoli" al pellegrino trecentesco Ignazio di Smolensk. "L'anima di questi edifici è il successo. Sono i tabernacoli della modernità", osservava negli Anni Trenta del Novecento Paul Morand, davanti agli sfaccettati grattacieli. Se la vertiginosa altezza dei pinnacoli art déco aveva fatto "tremare il cuore" di Camus "davanti a tanta meravigliosa disumanità", per il monaco vagante Stefano di Novgorod il palazzo imperiale di Costantinopoli è "grande quanto una città", e all'inizio del Quattrocento, nella nebbia mattutina, il ventisettenne nobile andaluso Pero Taflur, costeggiando insonnolito la Marmara di Gallipoli, scambiò Santa Sofia per una montagna.
Per chi arrivava a Costantinopoli dopo aver attraversato quella buia e incivile provincia che era allora il resto del mondo, occidentale quanto slavo, la Città era il faro della terra che emana la luce del giorno, dell'arte e della libertà. Sul Corno d'Oro, nell'incombere dei monumenti di pietra e di luce, il mare, annotano stupefatti i diaristi, entra nella metropoli. La prima cosa che si scorge approdando è la gigantesca colonna con la statua bronzea di Giustiniano, maestoso simbolo della libertà e cioè della legalità romana che vige a Bisanzio, custode per undici secoli del diritto classico.
L'impero è un melting pot di etnie e per le strade girano persone di ogni razza: mercanti arabi di uccelli e mercanti cinesi di sete, paggi bulgari e pedagoghi russi, asceti siriani e nobili circasse, trovatori provenzali e monaci irlandesi, o sbigottiti vescovi latini, come Liutprando da Cremona, che venuto alla corte di Teofilo ne riportò un diario, senza aver letto il quale non si comprende in pieno il senso di una poesia celebre di William Butler Yeats, Sailing to Byzantium.
Secondo Teodoro Prodromo, poeta maledetto del millecento, i costantinopolitani sono tutti o artisti o briganti. Quando Stevenson, alla fine del milleottocento, partì per New York i compagni di viaggio lo avvisarono di non rispondere a nessuno che lo apostrofasse per strada, altrimenti sarebbe stato picchiato e rapinato, e di barricarsi nella camera d'affitto per evitare di essere spogliato di tutto. "Gente viziosa e macerata dal peccato" consideravano i costantinopolitani gli ospiti occidentali, spesso, se diplomatici, raggirati dalla cinica astuzia di funzionari governativi e spie o depredati, se mercanti, nelle mescite degli angiporti lungo il Corno d'Oro, rosseggianti di vino e di sangue.
L'eparco e cioè il sindaco di Costantinopoli aveva alla sue dipendenze un efficiente corpo di polizia ma faticava già ai tempi di Giustiniano a mantenere l'ordine pubblico. Demos in greco vuol dire popolo. L'ippodromo, il luogo dello scontro fra i demi nelle gare sportive, era teatro della politica e di bagni di sangue. Nel senso letterale, la politica a Bisanzio era spettacolo. Procopio racconta un episodio. Nell'Ippodromo l'imperatore è atteso ed è in ritardo. Gli azzurri raggiungono i palchi dei verdi, scandiscono: "Licenza d'incendio - nessun verde in giro". I verdi si riversano al centro dello stadio e danno inizio al lancio delle pietre: "Licenza d'incendio - nessun azzurro in giro". Seguirà, nella notte, una spedizione punitiva antiazzurra. Gli scontri fra bande avrebbero causato la morte di decine di migliaia di manifestanti nella rivolta Nika, anno 532, trentamila morti nel solo Ippodromo.
La vocazione bizantina all'autodistruzione di massa non era esaurita dall'assemblearismo e neppure dal gusto della mobilitazione permanente. Il movimento ascetico fu un immenso suicidio collettivo. Già dal terzo secolo accanto al lusso, al benessere - in greco tryphé - si adorava anachòresis suo inscindibile contrario, letteralmente Fuga dal Mondo Civile. Il benessere bizantino produsse per undici secoli un esercito di monachòi, "individui isolati", per scelta, tanto dal contratto sociale quanto da quello ecclesiastico. Ma prima dell'hippismo, di Kerouac, di Easy Rider, dislocato in un altro impero allo scoccare degli Anni Sessanta, all'esplodere delle prime atomiche nell'atmosfera, al lancio dei primi razzi nello spazio, un analogo culto del deserto era stato proposto da un americano del Kentucky, Thomas Merton. "Quale vantaggio può venirci dal salire sulla luna se non siamo in grado di attraversare l'abisso che ci separa da noi stessi?", scrive nella sua antologia dei Detti dei Padri bizantini del deserto. Riguardano l'impero americano gli accenni aH'imperialismo "che impone con la forza delle armi la confusione e l'alienazione".
E da Costantinopoli di nuovo Merton ci riporta alla nera, fumosa New York descritta nell'autobiografica Montagna dalle sette balze, ora ripubblicata da Garzanti, dove Father Louis vaga "su quegli autobus che si prendono all'angolo di Broadway con la 110a Strada" alla ricerca del Dediligendo Deo di San Bernardo. "La nostra" scrive "è certamente un'epoca di solitari e di eremiti. Ma il nostro mondo è diverso dal loro. I nostri lacci sono più stretti. Il rischio che corriamo è molto più preoccupante. Il tempo che abbiamo a disposizione forse è molto più breve di quanto pensiamo." Esiste nel greco bizantino la parola iperciviltà: così definiva se stessa la politeia o civiltà di Bisanzio, multietnica, sovranazionale, persino sovratemporale nel suo protrarre ed estendere, per millenni e a oriente, la lingua e il pensiero della polis greca, l'eredità politica dell'impero romano, il sincretismo tardoantico. Nell'istmo tra Europa e Asia, dove la Seconda Roma crebbe su sette colli artificiali, fu trasferita la somma di quelle civiltà: il corpus di Giustiniano e degli imperatori che gli succedettero, la compilazione scientifica ed enciclopedica, l'incessante produzione storiografica, la multiforme creazione poetica.
Nel Libro delle cerimonie, di cui Sellerio ha recentemente pubblicato una scelta, l'imperatore Costantino Porfirogenito ha descritto un cerimoniale di corte più complesso di quello dell'imperatore della Cina, che sintetizza e simboleggia quei tratti originari. I suoi veli, i suoi riti apparentemente così insensati da sembrare creazioni simboliste, le sue scene corali, le acclamazioni ritmiche, i cortei dalle centinaia di parasoli, le migliaia di sfumature delle tuniche avevano sempre un preciso significato. La gerarchia della corte terrena si considerava "enigma e riverbero" di quella escogitata dai filosofi neoplatonici e dai teologi per la corte celeste. Dopo la caduta di Costantinopoli in mano ai turchi, fu mutuata dalle autocrazie moderne, clonata da Luigi XIV a Versailles, ricalcata dagli tzar e in qualche modo imitata anche da Stalin: chi non ricorda l'Ivan il Terribile di Eisenstein? La società di Bisanzio era dunque tanto evoluta da somigliare nel suo "eccesso di civiltà" alla moderna, ma non certo in quegli aspetti per i quali viene oggi applicata a sproposito la nozione di "bizantinismo" al nostro mondo politico. E' una definizione che deriva da un'immagine di Bisanzio ottocentesca, provinciale e carducciana, falsa come una scenografia di melodramma. Viene dall'ltalietta umbertina delle Cronache bizantine di Sommaruga, dal dannunzianesimo, da dépliant turistici e miti campanilisti.
Soprattutto, la demonizzazione di una Bisanzio capitale degli intrighi è eredità ecclesiastica, cattolica: frutto di un'incultura deliberatamente imposta, in origine, dalla propaganda dei papi contro un impero che dall'altra parte del Mediterraneo per undici secoli privò il clero del potere secolare, che non ebbe uno stato della chiesa né un papa re.
Fu un tentativo di stato laico, se pure dominato da un'ideologia ultraterrena, amministrato secondo il diritto classico da un'èlite dominante ramificata, educata, cosmopolita e plurilingue, attinta da quell'immenso serbatoio di talenti che era la sterminata provincia grande bizantina.
La classe dirigente di Costantinopoli operativa in un Palazzo che aveva al suo interno archivi immensi, una biblioteca di vertiginosa, borgesiana grandezza, un'università giuridico-filosofica che esprimeva i vertici dello stato, dove gli imperatori erano grandi matematici, i consiglieri di governo avevano talvolta, come Psello, la carica di "console dei filosofi", le figlie e le amanti degli statisti conoscevano a memoria i versi di Omero e anche l'ultimo segretario del più sperduto dei sekreta sapeva citare alla lettera Platone e Aristotele. Il pomeriggio del 29 maggio 1453 nelle strade di Costantinopoli il sangue scorreva come l'acqua dopo un temporale improvviso e i cadaveri galleggiavano verso il mare come meloni in un canale, scrive nel suo diario Niccolò Barbaro, un testimone veneziano che racconta la parabola della città di Costantino dopo quella che nella storia europea si considera in genere la sua fine: la conquista turca.
Il Conquistatore, il sultano Mehmet II, ha appena vent'anni. Legge avidamente il Corano e i Vangeli, i poeti persiani, le cronache degli imperatori, dei papi e dei re di Francia, Omero, Erodoto, Livio, Senofonte e soprattutto Arriano, il biografo di Alessandro Magno. Si identifica talmente con il conquistatore macedone da commissionare la propria biografia a un ex-dignitario greco, Michele Critobulo, e farla confezionare con la stessa carta e nello stesso formato della Vita di Alessandro della sua biblioteca. Parla turco, persiano, arabo e conosce anche il greco e il serbo-croato. E' un malinconico poeta. "Coppiere, versami del vino, che un giorno il giardino dei tulipani sarà distrutto", dice un suo verso. Il suo ritratto più famoso, una miniatura, lo raffigura mentre avvicina alle labbra la corolla di un fiore rosso.
Il giovane sultano guada il lago di sangue, attraversando lo scenario spettrale della città in rovina in sella a un cavallo bianco, per recarsi all'Haghia Sophis, la cattedrale della Divina Sapienza costruita novecento anni prima dall'imperatore Giustiniano. I Greci che a centinaia si sono rifugiati sotto l'immensa cupola vengono sottoposti dai vincitori a spaventose violenze. Le dame dell'aristocrazia sono trascinate fuori a piedi nudi, legate tra loro con una fune al collo, per entrare, racconta in una lettera Isidoro di Kiev, in Harem militari di infimo rango. I ragazzi delle migliori famiglie vengono brutalizzati e sodomizzati, a volte anche uccisi. Nulla di ciò turba l'atteggiamento contemplativo di Mehmet, che meditando sulla caducità di ogni gloria terrena prega Allah per la casa di Osman. Ma quando vede uno dei suoi soldati smantellare con l'ascia il pavimento di marmo bizantino, gli afferra il braccio con la mano: "Sii contento del bottino e dei prigionieri", dice.
"Gli edifici della Città lasciali a me". Mai poeta o viaggiatore al mondo si è estasiato per Bisanzio tanto quanto il Conquistatore. Il sultano, racconta lo storico turco Tursun Beg, ascende silenzioso, in mistica contemplazione, sulla cupola dell'Haghia Sophia:"Accanto alle rovine dell'Aya Sofya, alle costruzioni ridotte a giardini di pietra, neppure un vestibolo era rimasto in piedi: rimaneva eretta soltanto una cupola. Ma quale cupola! Il pàdiishàh del mondo, dopo aver ammirato le opere d'arte e le statue meravigliose e straordinarie che si trovano nel suo lato concavo, decise di scalare il suo lato convesso". "Salì così come lo Spirito di Divino è salito al cielo del Sole. Dalle aperture che si aprivano verso le gallerie dei piani intermedi si fermò ad ammirare il mosaico del pavimento, simile a un mare pietrificato. E così giunse sulla sommità della cupola.
Quando scorse i dintorni ridotti a rovine e deserto, meditò sull'incostanza e sulla variabilità di questo mondo, il cui destino è quello di cadere in rovina. Del discorso dolcissimo del pàdiishàh solo il verso seguente, in lingua persiana, è giunto all'orecchio di questo umile autore: Il ragno fa da portinaio nel palazzo di Cosroe. Il gufo suona la musica di guardia nella fortezza di Afràsijàb".
Fu così che la città di Costantino assunse altri nomi: Gosdantnubolis, Istanbul, Zarigrado, Kushta, Rumiyya al-kubra, la Città del Pellegrinaggio, la Casa del Califfato, il Trono del Sultano, la Casa dello Stato, l'Occhio del Mondo, il Rifugio dell'Universo, la Porta della Felicità. Santa Sofia fu tramutata in sfolgorante moschea, le rovine del Palazzo imperiale divennero la straordinaria reggia ancora oggi detta Topkapi, da Top Qapi, Porta del Cannone. Affacciata sulla punta orientale della penisola, dove confluiscono il Bosforo, il Corno d'Oro e il Mar di Marmara e l'Europa s'incontra con l'Asia, la reggia della Sublime Porta toccò l'apice dello splendore un secolo dopo la Conquista, sotto Solimano il Magnifico: il nemico di Carlo V, il sultano che i poeti ottomani chiamavano "Imperatore del Mondo e Messia dell'Ultima Era". Gli inventari degli arredi di Palazzo condotti nel Seicento elencano per la sola sala del trono, e solo quanto ai decori tessili, centinaia di voci: cuscini, tappeti, imbottiture, trapunte di gemme, tessiture d'oro zecchino. Nel 1799 la moglie dell'ambasciatore inglese Lord Elgin, l'esportatore dei marmi del Partenone, riuscì, travestita da uomo, a introdursi in quella sala al seguito del marito. Il canapè su cui sedeva in penombra il Mostro - così Lady Elgin chiamava Selim III - assomigliava molto, scrive, a un letto inglese, con la differenza che il copriletto era tutto incrostato di perle gigantesche e accanto a sé il sultano aveva un calamaio formato da un'unica, enorme massa di diamanti. Nel secolo in cui le buone maniere si insegnavano come l'equitazione e il greco, i modi perfetti dell'élite ottomana impressionavano talmente gli esponenti della nobiltà occidentale che Lord Charlemont, in visita a Istanbul nel 1749, attribuì ai visir una superiorità assoluta e oggettiva perché riusciva a sembrare non artefatta: ogni gesto dei nobili ottomani era un misto di scioltezza, grazia e dignità, a differenza - aggiungeva - della petulante aria di superiorità dell'aristocrazia francese. Al principio dell'Ottocento la capitale della Sublime Porta è ormai nel pieno della decadenza, ma davanti alle mura soffocate dall'edera, presidiate ormai solo dalle capre, Byron può ancora scrivere: "Ho visto le rovine di Atene, di Efeso e di Delfi; ho attraversato gran parte della Turchia e molti altri luoghi d'Europa e alcune dell'Asia, ma non ho mai visto un'opera della natura o dell'arte che m'impressionasse tanto quanto lo scenario che mi si è aperto dall'uno all'altro estremo dell'orizzonte quando ho avuto davanti agli occhi il Corno d'Oro". Nell'ultimo secolo ottomano il cielo notturno continua a riflettere lo splendore del re dei re. A ogni festa e celebrazione tra un minareto e l'altro vengono tese scritte formate da fiammelle luminose, su ogni barca si accendono multicolori lanterne di carta che illuminano tutto il Bosforo. I palazzi sembrano incendiarsi delle migliaia di riverberi che sconvolsero il favolista Hans Christian Andersen, il quale, assistendo nel 1841 alle luminarie in onore del Profeta, si sentì avvolto - scrisse - in un incantesimo di luce e ingoiato in un'unica foresta di fiamme. "Le immobili moschee, che i secoli non mutano, erano forse più candide, anticamente, quando i nostri vapori d'Occidente non avevano ancora oscurato l'aria qui intorno e solo le imbarcazioni a vela di un tempo" - scriveva già Loti - "portavano la loro ombra". Agli occhi dei viaggiatori del medioevo, Costantinopoli era una città "d'oro e di luce riflessa nelle limpide acque del Bosforo", come aveva annotato nel suo diario Ignazio di Smolensk. Oggi, a Istanbul domina una gamma di toni che va dal nero al perla passando per il più frequente, il grigio sporco: la penombra fuligginosa dei veicoli della città vecchia anneriti dal kòmur usato come combustibile, il nero dei lustrascarpe, l'ombra dei caffè invasi dal fumo, e, sul Mar Nero, l'inquinamento degli scarichi delle petroliere, oleosi e cangianti fra i pontili di Galata. Come ha scritto Josif Brodskij in Fuga da Bisanzio, "basterebbe raffinare quel petrolio per assicurarsi di campare lautamente".