Con Aristofane si ride per non piangere
Il dibattito odierno sulla satira si svolse già nell'Atene del IV sec. A.C. come dimostrano le «tesmoforiazuse » in uscita da Valla
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Che cos'è la satira? La campagna elettorale italiana ancora in corso ha avuto al centro un suo piccolo dibattito sul diritto alla satira. Satira e politica sono da sempre inestricabilmente legate, ma né da parte di chi nel nostro paese riteneva di stare esercitandola, né da parte di chi se ne denunciava leso è parsa affacciarsi una nozione certa di che cosa la satira politica sia. Né i suoi autori, né i suoi bersagli, né, soprattutto, gli astanti della grande platea televisiva hanno avuto occasione di essere illuminati dal suo spirito. Quello spirito nel nostro paese e nel nostro tempo pare dileguato, ma era invece universalmente vissuto e condiviso anticamente, al tempo della democrazia ateniese, di Pericle e di Alcibiade. Tutti sapevano riconoscerlo, tutti ne partecipavano. A quell'epoca si sapeva con certezza che cosa fosse la satira, ma soprattutto si sapeva farla. Il suo maestro era Aristofane, un intellettuale politicamente impegnato, capace di trascinare nel dibattito della polis platee intere e contemporaneamente di farle ridere fino alle lacrime, mentre inceneriva i protagonisti della lotta democratica con la forza di un verso, di un trimetro giambico bene affilato. Oggi escono, per la Fondazione Valla, le sue Tesmoforiazuse, curate da Carlo Prato, con un importante saggio introduttivo di Dario Del Como. Tra le commedie di Aristofane, questa è forse la più politicamente scorretta. Come suo solito, Aristofane mette in scena due contendenti e li distrugge tutti e due. In questo caso i duellanti sono un eminentissimo letterato di regime, Euripide, celebre per la sua misoginia, e il popolo femminile di Atene, che nell'occasione rituale della Festa delle Donne (le Tesmoforie, appunto), in un sussulto di femminismo si costituisce in assemblea politica (ekklesia) per contestare gli assunti sessisti del grande tragico. Vengono così messi alla berlina sia il sussiego degli scrittori laureati sia gli stereotipi delle assemblee politiche, il loro linguaggio, la retorica dei «programmi», e naturalmente l'estremismo rovesciato, la seriosità da parvenu del partito delle donne, e tutte le contraddizioni e i lati deboli della retorica politica al femminile. Del resto, nient'altro viene risparmiato dalla dissacrante scorrettezza di Aristofane: i vaniloqui dei demagoghi e i deliri dei religiosi, le affettazioni degli omosessuali e le ipocrisie delle coppie, le soddisfazioni degli stupratori, le prodezze dei pedofili, le nefandezze delle madri, tutto è messo sullo stesso piano, il bene trascolora nel male, il perbenismo in fanatismo, i riti collettivi in collettiva follia. Le Tesmoforiazuse potrebbero sembrare allora più una satira di costume che una satira politica, ma non è così. Tra la fine del 412 e gli inizi del 411, quando le Tesmoforiazuse furono completate (secondo la ricostruzione di Del Como, che segue precedenti autorevoli come quello di Wilamowitz), aleggiava ad Atene un clima di angoscia e di paura in campo democratico. Erano i prodromi di quel radicale mutamento di colore politico che poco dopo, prima dell'estate, sarebbe sfociato nella sollevazione oligarchica samia e nella conseguente instaurazione ad Atene del governo reazionario dei Quattrocento. E’ la premonizione di questi eventi il vero centro della satira di Aristofane, che si serve di un letterato tronfio e di un gruppo di femministe scatenate per comunicare al pubblico di un'Atene ancora democratica le sue inquietudini sull'imminente vittoria oligarchica. Ma lo fa con una tale raffica di trovate sceniche, di oscenità esilaranti e di filosofiche sconcezze, di derisioni e dissacrazioni, che niente e nessuno dalla sua satira esce indenne. Perché non c'è, nella satira politica, un auspicato vincitore, non c'è settarismo, né opportunismo, né piaggeria. Si ride per non piangere. E il pessimismo su tutte le opinioni, specie se addensate in gruppo, l'essenza della satira politica.