Alcibiade, il disastro della democrazia
L'archetipo "maledetto" della politica in Occidente. Da Tucidide a Yeats, una storia di vizi e virtù
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«Una vita d'avventure in una democrazia in crisi» annuncia la fascetta rossa delle Editions de Fallois sul best seller di Jacqueline de Romilly, Alcibiade, al quarto posto nella classifica dei livres pilotes in Francia. Definizione un po' riduttiva, per la vita del primo grande mito politico dell'antichità occidentale. Modello di Cesare e degli imperatori romani e bizantini, prefigurazione del libertino, dell'avventuriero romantico, del seduttore, poi archetipo del maledetto, del dandy, della spia, in questo secolo l'eversivo irlandese Yeats ha scritto: «Tutti quanti onoro secondo il loro rango / ma soprattutto Alcibiade». Se Adriano aveva fatto del greco Alcibiade il proprio modello, la Romilly, nonostante l'uso corretto delle fonti e la narrazione senza errori di fatto, sembra proprio avere imitato la Yourcenar, nel senso che lo stile del libro su Alcibiade può definirsi una volgarizzazione dei Mémoires, gremita di punti esclamativi («Ah, imprevedibile, straordinario Alcibiade!»), di soggettive interpretazioni psicologiche, di domande retoriche e incaute. Ci si domanda allora perché mai, da quando il libro è uscito, sia stato accompagnato da recensioni a più colonne sulle pagine culturali dei quotidiani e lo si ritrovi in casa di ogni rispettabile francese. Ci si risponde che deve avere colto, magari inavvertitamente un argomento maturo per essere attualizzato, reso oggetto di un'identificazione collettiva: nella «democrazia in crisi» della fascetta i lettori francesi devono avere riconosciuto la propria, segnando l'ennesima metamorfosi di un archetipo inestirpabile dall'immaginazione dell'Occidente. Ricchissimo efebo bisessuale, alla morte del padre Alcibiade fu adottato da Pericle. Entrò negli ambienti del governo ateniese da adolescente, e anche nella cerchia dei discepoli di un anticonformista dall'aspetto di satiro e dagli occhi tanto sporgenti, da poter guardare anche di lato: Socrate. Contrapponendogli la bellezza superiore, poiché solo interiore, del sofista Protagora, questi riuscì, se non a sfuggire al suo fascino, a seminare in lui il germe d'insicurezza che muove tutti i grandi seduttori. Della grande passione fra Socrate e Alcibiade parla apertamente Plutarco e Socrate stesso nella prima frase dell'Alcibiade primo si dichiara il suo più antico amante (erastès) nonché l'unico a non avere mai desistito. Nei Memorabili Senofonte riconosce ad Alcibiade il primato dell'oltraggio alla morale greca in una peculiarità del carattere ad essa particolarmente sgradita: era del tutto incapace di controllare i propri desideri (akratèstatos). Al contrario, Socrate univa all'assoluta sincerità un autocontrollo (karterìa) leggendario. Fu così che, come racconta Alcibiade, i ruoli si rovesciarono e l'amante, Socrate, divenne l'amato, e l'amato un tormentato amante: è la ricetta socratica contro il demone dell'eros, tramandata dal Simposio alla posterità. Nell'evento culminante della storia della democrazia greca, la guerra del Peloponneso contro Sparta, fu l'uomo chiave di quello che Tucidide chiamerà l'imperialismo di Atene. Il grande progetto di cui si fece imprenditore non era solo il soccorso alle città siciliane in pericolo ma la conquista dell'intera Sicilia: l'abbattimento della superpotenza cartaginese da una parte, la penetrazione in Italia dall'altra. Si mise personalmente a capo delle navi finanziate e costruite nei suoi cantieri. La spedizione ateniese in Sicilia si prospetterà quasi subito come una débâcle e Alcibiade cambierà tre volte campo. Come lo tramanda Tucidide, il discorso agli spartani dopo la defezione è una teorizzazione della necessità del trasformismo in politica, una professione d'individualismo e soprattutto la prima e più tagliente dichiarazione di scetticismo verso la democrazia. Nel dibattito dei contemporanei e di quanti scrissero del caso Alcibiade dopo la sua morte - Tucidide, Senofonte, Teofrasto ma soprattutto, a parte Aristofane ed Euripide, Isocrate, Lisia e anche Andocide, fino a Plutarco e a Cornelio Nepote - la sua figura divenne l'incarnazione dell'idea di decadenza: di quella peculiare decadenza - del senso civico, delle moralità e della fiducia stessa nella politica - connessa forse inscindibilmente alla democrazia, anzi, secondo alcuni degli antichi, sua emanazione certa. Nell'età moderna Alcibiade è il simbolo di ciò che d'imminente attende le nostre democrazie: le ambizioni personali che prevaricano l'interesse comune, la tentazione imperialista come contraddizione della democrazia e sua storica maledizione; e poi la politica degli scandali, i rovesciamenti dell'opinione popolare, lo sfruttamento demagogico del mecenatismo sportivo, il retroscena affaristico dei progetti di guerra, il contrasto tra potere finanziario e magistratura nell'era dei primi grandi processi giudiziari della storia occidentale.