Tutti pazzi per Atlantide
Tra mito e nostalgia Vidal-Naquet esplora le infinite forme assunte nei secoli dalla storia dell’isola inabissata La raccontò per primo Platone, inventando così un genere letterario di grande avvenire: la fantascienza
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“Ti sei messo in testa / di andare ad Atlantide / e hai scoperto ovviamente / che solo la Nave dei Folli / fa la traversata quest’anno / perché sono previste onde anomale di enorme forza”, ha scritto uno dei massimi poeti del Novecento, Auden, nella sua Atlantide. Quando all’inizio del secolo successivo New Orleans e altre città del golfo del Messico sono state inghiottite dall’oceano, sul New York Times è apparso un articolo in cui si paragonava quella catastrofe al maremoto che nel IV secolo a.C. inghiottì l’isola di Helike, a nord ovest del Peloponneso: l’evento al quale, secondo la più recente delle ipotesi storiche su Atlantide, Platone si sarebbe ispirato per il suo mito.
E’ nel prologo del Timeo e nel Crizia che Platone racconta della gigantesca e ricchissima rivale di Atene, un’isola al di là delle Colonne d’Ercole, “più estesa della Libia e dell’Asia”, inabissata per volere degli dèi. Un racconto tratto da un’antica tradizione orale di provenienza egizia e di cui si sarebbe potuto fare il più grande poema greco, osserva Platone, velando d’ironia il suo gioco narrativo. No, neppure l’inventore del mito lo prendeva sul serio. Eppure sono state tanti, da allora in poi, a crederci.
Inevitabile che a partire dalla scoperta accidentale di Cristoforo Colombo in Atlantide sia stato visto il Nuovo Mondo, l’America. Così, all’alba dell’età moderna “il treno di Atlantide è ormai sulle rotaie e non si fermerà più”, scrive Pierre Vidal-Naquet nello splendido libro appena uscito in Italia (Atlantide. Breve storia di un mito, Einaudi, 141 pp., 18 euro). E questo non ostante il freno opposto prima dall’interpretazione metaforica dei neoplatonici, poi dallo sfrenato allegorismo dei bizantini e infine dagli umanisti capitanati da Ficino. Ma inutilmente.
C’è chi ha collegato al mito di Atlantide quello, straordinario, delle dieci tribù perdute di Israele. Già Colombo peraltro si era munito di un interprete di lingua ebraica, aspettandosi di incontrare nelle Indie che andava cercando i discendenti di quegli Israeliti dispersi. Poi però il nazionalismo tedesco del periodo hitleriano, irto di Atlantidi letterarie, capovolgerà in termini razziali l’identificazione Israele/Atlantide, tanto che discendere dagli Atlantidi significherà anzi non discendere dagli Ebrei, né spiritualmente né per via di sangue.
C’è stato chi ha incongruamente scorto in Atlantide la Svezia, prendendo per guida l’epica dell’Edda, o un Caucaso smisuratamente allargato dal Turkestan al Mar Glaciale, fornendo inopinati fondamenti al successivo Mito ariano di Poliakov. E c’è stato chi, in fondo assai meno incongruamente, ha visto in quello sconfitto mondo ancestrale nient’altro che il continente africano, in effetti, se pur metaforicamente, da sempre sommerso.
Ideologia e geografia dunque si fondono come non mai in quella che un illustre atlantologo, Paul Jordan, chiama “la sindrome di Atlantide”, non a caso una parola presa dal vocabolario della medicina. Atlantide è per Vidal-Naquet “un malanno a ripetizione”, che “bisogna da un lato eliminare dal mondo reale e dall’altro interpretare come Platone l’aveva concepita, come una critica radicale all’imperialismo marittimo di Atene”. Se la prima cosa era già stata fatta da un encomiabile studioso di metà Ottocento, Thomas-Henri Martin, e se la seconda era stata proposta già a fine Settecento da Giuseppe Bartoli, sapiente grecista dell’Università di Torino, i due filoni interpretativi, quello storico-geografico e quello metaforico, hanno continuato a coesistere. Perché la storia, come scrive ancora Vidal-Naquet, “non è fatta soltanto dalle conquiste dello spirito umano, è fatta anche dalle sue erranze, dei vicoli ciechi in cui si è infilato e continua a infilarsi”.
Da Montaigne, che negli Essais scriverà, parlando di Atlantide: “Noi abbracciamo tutto, ma stringiamo solo vento”, alla Nuova Atlantide utopistica di Bacone e alla cartografia esoterica di Athanasius Kircher, passando per le variazioni sul tema del secolo dei Lumi, ora giocose ora candide, si approderà al visionario Novalis. Sarà lui a finire di trasformare quello che per Platone era un impero del male in paradiso segreto, di cui l’America di Blake darà una versione biblico-celtica. Finché Darwin non tornerà a credere davvero all’idea di un continente scomparso.
Atlantide resiste alla modernità, mentre nell’antichità, secondo Vidal-Naquet, “molti dovevano semplicemente riderne”. Perché la distinzione tra scienza e poesia è terribilmente recente, mentre i greci sapevano riconoscerne la labilità. Se, come scrisse già a suo tempo Martin, “Atlantide appartiene a un altro mondo, che non è nell’ambito dello spazio, ma in quello del pensiero”, proprio per questo è indistruttibile.
Come scrive Vidal-Naquet, oggi “nessuno pensa di camminare sulle tracce di Er, e se abbiamo a Parigi un viale degli Champs-Elysés, sappiamo bene che non è abitato dai morti”. Di tutti i miti che Platone ha inventato — a eccezione forse di quello dell’immortalità dell’anima, raccontato nel Fedone — il mito di Atlantide è il solo che abbia attecchito. Platone ha inventato un genere letterario ancora in vita: la fantascienza. Non a caso Jules Verne in Ventimila leghe sotto i mari mostra il capitano Nemo e il suo invitato involontario, il professor Arronax, mentre percorrono le rovine sommerse di Atlantide a 450 miglia marine a largo della costa del Marocco. Una visione simbolica della nostalgia moderna per l’inabissato, di cui Nemo, il nuovo “Nessuno”, è l’ultimo Ulisse.