Silvia Ronchey

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Verso Bisanzio, dove le immagini sono l’interfaccia tra visibile e invisibile

11/03/2018 Francesco Lubian

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Alias- Il Manifesto

Si apre nel segno della mezzaluna, simbolo del sultano Mehmet II tuttora campeggiante insieme alla stella al centro della bandiera turca, l’ultimo libro di Silvia Ronchey, La cattedrale sommersa. Alla ricerca del sacro perduto (Rizzoli «Saggi», pp. 256, €19,00), che raccoglie e rielabora venticinque articoli apparsi fra 2014 e 2017 sul Repubblica.
Già la genealogia di quest’im­magine, che rimanda insieme ad Artemide e alla Vergine, pro­tettrici della Bisanzio pagana e cristiana, intrecciandosi con la leggenda relativa all’eclissi di luna registrata in città durante l’assedio ottomano del maggio 1453, basta a illustrare i tratti dell’Oriente caro all’autrice, do­cente di Civiltà bizantina: es­senzialmente un campo di ten­sione, in cui da più di un millen­nio convergono - per convive­re o deflagrare - almeno tre cul­ture, quella classica, bizantino-cristiana e islamica.
Paradossale emblema di ta­le sincretismo è lo stesso Cri­sto: il giovane falegname ebreo Yeoshua, «un punto mi­nuscolo nel mare di parole del­la letteratura antica», si sovrap­pone a Mitra, a Dioniso, al su/ì indiano Yuz Asaf e allo stesso Buddha, mentre per converso l’assimilazione cristiana di Sid- dharta, che ancora compare co­me santo nel Martirologio Ro­mano del 1583, avvenne so­prattutto attraverso il Romanzo di Barlaam e Ioasaf.
Attraverso percorsi altret­tanto tortuosi, sarà invece l’ico­na a esercitare un decisivo im­pulso sullo sviluppo dell’astrat­tismo novecentesco, conducen­do fino alle repliche seriali di Andy Warhol e al blu «inconfon­dibilmente bizantino» di Yves Klein. Già al termine delle lotte iconoclaste, a Bisanzio le imma­gini sacre avevano infatti per­duto ogni ambizione realistica, assumendo piuttosto lo status di interfaccia fra il visibile e l’invisibile, di «prototipi della figura umana trasfigurata» (così Trubeckoj).
L’Oriente della tradizione come prodromo di quello della rivoluzione, dunque: e del resto anche Hugo Ball, nella sua sorprendente fase post-dadaista, scriveva che il socialista e il mistico bizantino sono accomunati almeno da una cosa, il desiderio di abbandonare la cultura borghese alla sua decadenza.
È la minaccia dell’Isis ad aver restituito all’attualità molti dei luoghi citati nel libro, che è anche una sorta di carta termografica da cui emergono i nodi culturalmente e politicamente più significativi del Vicino Oriente. La comparazione storica scongiura però i rischi di troppo comodi parallelismi: se infatti il monastero di Santa Caterina sul Sinai, da tempo minacciato dai fondamentalisti, era considerato venerabile dallo stesso Maometto, la distruzione dei Buddha di Bamiyan e delle statue del museo di Mosul trova il suo precedente più prossimo non tanto nell’aniconismo islamico, quanto nel sacco crociato di Bisanzio del 1204, descritto in pagine drammatiche da Niceta Coniata; e del resto lo stesso terrore in full-HD dei videoproclami dello Stato islamico ha molto poco di orientale, costruito com’è a misura del pubblico occidentale abituato agli stilemi dell’horror movie.
Il luogo per eccellenza dell’incontro fra Oriente e Occidente rimane la città dai tre nomi, Bisanzio-Costantinopoli-Istanbul: la sua immagine «lunare e femminile» palpita ovunque nel libro, anche quando il suo nome appare solo di sfuggita, come nelle scarne note del diario di Patrick Leigh Fermor, che pure ne aveva fatto la meta del viaggio attraverso l’Europa degli anni Trenta che egli impiegò tutta la vita a raccontare.
L’Occidente, non solo quello postmoderno per il quale il passato è ormai indistinguibile dalla sua ibridazione messa in scena da Game of Thrones, è stato spesso incapace di riconoscere l’autentico volto dell’Oriente, da un lato proiettandovi i suoi stessi mali e dall’altro cercando in esso le vie del loro riscatto; indagando «il passato con gli occhi del presente e il presente con gli occhi del passato», Silvia Ronchey guida i lettori alla decifrazione dei rintocchi della cathédrale engloutie (il titolo è debitore di Debussy), ricostruendo frammenti di una storia che, da sempre, è anche la nostra.

 

 


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